News - Editoriali

Roma, 2 gennaio 2014

Pompei ovvero dell’occasione perduta (fra le mille)

Rifiuti

(Paola Ficco)

Pompei e la mostra del suo splendore. Un film. Bellissimo. Circa cento sale (gremite) lo proiettano in tutta Italia e sarà distribuito in cinquanta Paesi. Preparato dal nostro Ministero per i beni culturali? No, dal British Museum.

Peccato, potevamo fare una bellissima figura noi (guadagnandoci anche) anziché gli amici di Oltremanica. Del resto, di Pompei l’Italia sembra davvero non sapere che farsene e agli scavi rimane l’invenzione del tempo senza alcuna possibilità di fare altro, a parte crollare. Il tutto è privo di manutenzione, cioè non viene tenuto per mano. Non viene, dunque, amato.

Come quasi niente è amato in questo Paese, si pensi al terreno che frana vittima del dissesto idrogeologico. Una sciagura nazionale frutto anch’essa del fatto che nessuno ha tenuto per mano il territorio. Nessuno lo ha, infatti, mantenuto. Anzi, si è costruito ovunque, su discariche, su aree alluvionate, su terre fertili abbeverate dai fiumi esondati.

La civiltà post-industriale ora si accorge del mancato rispetto che delle leggi della natura ha avuto la civiltà industriale la quale, prescindendo da tutto a da tutti, ha consumato suolo agricolo e autosufficienza alimentare. Forse solo riappropriandosi dei valori di luoghi e persone si riuscirà ad avere una nuova rinascita che arricchisca le comunità e non solo gli onnipresenti furbetti. L’edilizia deve riqualificare il patrimonio insediativo e non insidiare il suolo. La legge di stabilità ha stanziato un po’ di spiccioli contro il dissesto idrogeologico. Di denaro, invece, ne servirebbe moltissimo. E ancora una volta tutti pagano per l’egoismo di pochi e la illegalità di alcuni (?) che, con sillogismi falsi, ottengono consensi anche se non dicono il vero, ma solo cose che gli assomigliano e che come tali non sono il vero. Platone li chiamava sofisti e non li voleva nella polis democratica. Neanche i retori erano ammessi perché dotati dell’arte della persuasione che fa apparire vero il falso. Categorie queste sempiterne che solo lo spessore e la capacità di critica di chi ascolta possono espungere dal contesto civile. Doti che, però, si assottigliano e sempre più rara è la competenza per affrontare i problemi complessi del nostro tempo. Ora piuttosto si affannano e deprimono le intelligenze, rendendole suscettibili e vanitose, affinché siano poste in grado di arrendersi essendo felici solo di possedere immagini o il superfluo.

Forse è per questo che alla democrazia si sta inesorabilmente sostituendo la videocrazia, all’essere l’apparire, all’emozione e alle sue ragioni il “mi piace – non mi piace”, al contrassegnare il “fleggare” e potremmo andare avanti per molto ancora. Forse è in ragione di questa caduta verticale del senso che i retori ci emozionano e che pensiamo siano dotati di carisma. Dimenticando che il termine greco significava “grazia”. Una regressione sterile del pensiero, ingenerosa di immagini e inespressiva (nonostante la dipendenza dal video), volgarizzata dal fermo immagine delle foto “postate” sui social network, un telaio del futuro dove lo Sciascia di “Todo Modo” vedrebbe “una fitta trama di tradimenti e di inganni”. Il tutto in una distanza siderale da tutto, in un limbo ostile e roccioso. Dissesto idrogeologico si diceva e il 20 novembre 2013 il nord della Sardegna viene travolto dall’alluvione. Una Sardegna offesa dal cemento dove oltre la metà delle case è ubicata nei Comuni costieri. Di queste, oltre il 70% è vuoto o occupato per qualche settimana l'anno. Un gioco al massacro che fa dell’Italia tutta la manifestazione agghiacciante dell’impasto vischioso del potere che la politica nostrana ha avuto (ed ha) il funesto privilegio di produrre. Ovunque e in tutti i campi.

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