Rifiuti

Documentazione Complementare

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Atti del seminario internazionale "Contrasto alla criminalità ambientale, anche con riferimento all'illecito trasferimento transnazionale dei rifiuti"

(Maurizio Santoloci - Magistrato - Vice presidente nazionale Wwf Italia)

Febbraio 2005 - La normativa sui rifiuti recepita nell'ordinamento italiano

Relazione

La normativa sui rifiuti recepita nell'ordinamento italiano

Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente

Seminario Internazionale — Contrasto alla criminalità ambientale, anche con riferimento all'illecito trasferimento transnazionale dei rifiuti

 

in collaborazione con

Ufficio Taiex

Direzione Generale per l'Allargamento

Commissione Europea

Roma 23 — 24 febbraio 2005

Comando Unità Mobili e Specializzate Carabinieri

"Palidoro"

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estratto dalla relazione del

Dott. Maurizio Santoloci

Magistrato di Cassazione

 

"La normativa sui rifiuti recepita nell'ordinamento italiano"

 

Normativa europea sui rifiuti ed ordinamento italiano. A distanza di ormai molti anni dall'entrata in vigore del sistema legislativo di recepimento, che prende avvio con il Dlgs 22/1997 (cosiddetto "Decreto Ronchi " sui rifiuti), un esame onesto e concreto della situazione di fatto attuale impone di chiedersi se realmente la normativa europea di settore è stata trasferita integralmente nel tessuto giuridico del nostro sistema ordinamentale nazionale.

 

LA NORMATIVA EUROPEA E' REALMENTE RECEPITA NEL SISTEMA GIURIDICO NAZIONALE?

 

La deregulation ed il "non rifiuto"

L'esperienza pratica sul territorio in questi anni ci porta a dover esprimere alcune valutazioni che prescindono dalle pure ed astratte teorie per trarre elementi di esame dalla storia reale della applicazione della normativa sui rifiuti nel nostro Paese.

Va premesso che indubbiamente il recepimento formale della normativa europea è stato attuato nel nostro paese attraverso la specifica legislazione in materia. Dunque, è pacifico che il nostro ordinamento si è posto ufficialmente in regola inizialmente attraverso l'emanazione del Dlgs 22/1997 rispetto agli obblighi derivanti dalle norme europee. Resta tuttavia da chiedersi se poi nel corso delle evoluzioni successive che si sono sviluppate dal 1997 fino ad oggi (e che sono ancora in piena fase dinamica anche con l'emanazione della famosa "legge delega ambientale") tale recepimento non sia stato poi progressivamente svuotato e neutralizzato fino al punto da tradurlo in un mero esercizio teorico normativo di facciata senza alcun reale nesso di collegamento diretto e concreto con la normativa europea, della quale dovrebbe essere aspetto speculare diretto.

Cosa è successo, infatti, in questi anni nel corpo della normativa nazionale sui rifiuti, e più in generale nel contesto della disciplina giuridica ambientale del nostro paese?

Non va sottaciuto in questa sede di seminario tecnico giuridico che forti tendenze sociali, economiche, politiche ed istituzionali già prima dell'entrata in vigore del Dlgs 22/1997, e cioè prima del recepimento in Italia delle istanze europee, hanno sempre teso a creare un movimento di tendenza per esonerare moltissime tipologie di rifiuti dalla qualificazione appunto formale di "rifiuto". Questa tendenza — assolutamente trasversale rispetto a tutte le componenti sociali, politiche e anche istituzionali del nostro Paese — ha attraversato indenne tutta la fase storica precedente al recepimento della normativa europea in Italia e la fase successiva a tale evento.

Il comun denominatore portante è stato sempre quello di estromettere dalla qualificazione giuridica di "rifiuto" una gran massa di materiali residuali industriali, con l'evidente chiaro fine conseguente di eliminare a carico di tali materiali tutte le regole di controllo e di gestione formale per ridurle al rango di ordinarie "merci".

In tal modo queste tipologie di rifiuti sfuggono alla visibilità della pubblica amministrazione in quanto, non essendo identificabili formalmente e giuridicamente come "rifiuti", sono totalmente non percepibili in via preventiva e repressiva sia dagli organi preposti ai regimi autorizzatori e gestionali in materia di rifiuti, sia agli organi di controllo e di polizia che devono verificare il rispetto delle regole imposte dalla norma di settore e quindi l'insorgenza di eventuali illeciti (soprattutto penali).

Va dunque osservato, — se si vuole tracciare un panorama veramente reale e di verità storica sull'evoluzione della situazione del recepimento della normativa europea sui rifiuti nel nostro paese — che fino ad oggi (e prevedibilmente anche per il prossimo immediato futuro) il comun denominatore che ha accompagnato ogni anno tutte le vicende collegate alla regola giuridica della disciplina dei rifiuti in Italia è stato quello del contrasto a volte forte e perfino virulento tra coloro che sostengono la necessità di far rientrare nella qualificazione giuridica "rifiuto" quei materiali che tali sono in base alle norme europee e coloro che invece hanno sempre teso fino a oggi a estrapolare da tale contesto quanti più di tali materiali possibile.

Dunque, il destino della reale efficacia del recepimento nazionale è basato su tale dualismo. Perché è, a nostro avviso, logico ritenere che laddove un materiale venga esonerato dalla definizione di "rifiuto", tutte le vicissitudini che lo interessano sfuggono ai controlli preventivi e repressivi. Di conseguenza, le illegalità (anche gravi) che vengono commesse sul territorio con riguardo a quello specifico settore rischiano di sfuggire alla verifica di polizia giudiziaria e giurisdizionale penale; perché la filiera del sistema di gestione nella sua interezza è stata cancellata e resa invisibile sulle strade del controllo.

La tendenza che andiamo esaminando è dunque verso la deregulation generale in materia di rifiuti che ha caratterizzato la storia applicativa del Dlgs 22/1997 e delle successive norme integrative fin dal momento dei suoi albori e fino ad oggi.

 

I due filoni principali della tendenza alla deregulation

Tale deregulation si è sviluppata attraverso due filoni principali.

Il primo è quello di natura politico/istituzionale, giacché è stato praticamente incessante il flusso di provvedimenti — a diversi livelli — tendenti ad estrapolare dal concetto di "rifiuto" ogni volta un singolo materiale o gruppi omogenei o disomogenei di materiali. Tali continue modifiche normative e regolamentari, attuate con diversi provvedimenti di eterogenea natura normativa, sono state anche a volte oggetto di censure da parte degli organi europei competenti. E comunque hanno generato nel nostro sistema nazionale forti contrasti sia culturali, sia anche giurisprudenziali a ogni livello.

In questo contesto di deregulation politico/istituzionale si è verificato che particolari e specifiche tipologie di rifiuti reali sono stati sottoposti a estromissione formale rispetto a tale qualificazione giuridica non soltanto per intere categorie ma a volte anche per singole e specifiche tipologie di materiale. In pratica si è anche seguito un criterio deregolamentazione caso per caso, secondo anche specifiche caratteristiche di quel materiale e verosimilmente interessi politico-economici che ruotano attorno al settore di appartenenza. Una specie di deregulation personalizzata che ha attivato spesso anche forme di contrasto interpretative e applicative conseguenti fino ad interessare gli organismi europei in sede di censura.

Vi è poi un secondo filone, che è meno evidente rispetto al precedente, ma paradossalmente non meno importante e penetrante, che è costituito da una tendenza radicata in alcune pubbliche amministrazioni soprattutto territoriali locali in base al quale la deregulatin viene attuata attraverso interpretazioni ed argomentazioni applicative di fatto sostenute ora a livello nazionale ora a livello locale in via parallela ed autonoma rispetto alle modifiche normative in itinere.

In sede seminariale e convegnistica e in ambito politico/istituzionale presso molte realtà territoriali locali, a distanza di anni dall'entrata in vigore del Dlgs 22/1997 che ha tracciato totalmente ex novo tutte le regole nazionali in materia di rifiuti, sussistono ancora oggi tendenze forti ed impenetrabili di prassi, interpretazioni, decisioni e circolari che tendono a estromettere di fatto localmente dalla nozione di "rifiuto" specifici materiali. Con ciò determinando una deregulation insuperabile a livello territoriale che ha riflessi immediati sulla inevitabile cancellazione della tracciabilità della filiera della gestione di quel materiale e quindi sui sistemi di controllo e in definitiva sui criteri di sanzione.

 

Ad esempio fanghi e liquami industriali...

Un esempio per tutti: i fanghi e i liquami di natura industriale. Equivoci interpretativi, prassi arcaiche, tendenze applicative storicamente distorte portano ancora oggi nell'anno 2005 a ritenere in modo incredibile da parte di alcune pubbliche amministrazioni e perfino da parte di taluni organi di controllo locale (sia amministrativi che di polizia giudiziaria) che i fanghi da depurazione ed industriali e i liquami zootecnici industriali non sono classificabili come "rifiuti" ma sono totalmente esenti da ogni regola in materia di disciplina ambientale. Praticamente, ancora meno di "merci" e dunque il loro accumulo, il trasporto e gli smaltimenti finali sui terreni sarebbero totalmente liberi da ogni regola formale, cartografica e di registrazione sulla tracciabilità.

È un dato di fatto oggettivo che sui fanghi e liquami di natura industriale si sono incentrate in questi ultimi anni clamorose e preziosissime attività di indagine del Comando Carabinieri per la tutela dell'ambiente in tutta Italia, in quanto questo prestigioso organo — che ben ha sempre intuito ed applicato correttamente e professionalmente la normativa di settore — ha individuato in ripetuti e clamorosi episodi giudiziari forme devastanti di traffici e smaltimenti illegali sui terreni di tale materiale. Le inchieste complesse e articolate si sono concluse anche con moltissimi provvedimenti restrittivi della libertà personale, sempre condivisi dalla Magistratura competente.

Questi dati di fatti storici, oggettivi e documentabili confermano una verità incontestabile: i fanghi e i liquami industriali sono la nuova frontiera della criminalità ambientale non solo organizzata ma anche di una tipologia di delinquere ormai diffusa e radicata nel tessuto sociale di settore tanto da apparire regola ordinaria. E nonostante queste chiare ed evidenti realtà, ancora oggi si registrano in sedi di pubbliche amministrazioni locali e perfino in sedi di qualche organo deputato al controllo le arcaiche ed ormai ingiustificabili teorie di prassi applicative che vorrebbero tali rifiuti estromessi dalle regole, appunto, in materia di rifiuti.

Attraverso ermeneutici e sibillini percorsi argomentativi che si basano su principi giuridici praticamente inesistenti che però tutti danno per scontato che esistono e sui quali nessuno si chiede dove siano trascritti, si sono incardinate ed incontrastate prassi di lettura distorte dalla norma che portano ancora oggi a ritenere questi pericolosi tipi di rifiuti come materie addirittura inferiori alla qualificazione del concetto di "merce". E, dunque, del tutto libere nel deposito, nel trasporto, nello spandimento e nelle altre forme di destinazione finale. Così fan tutti, e dunque così si può fare... E' questo il paradossale nuovo principio imperante che legalizza ogni forma di illecito basta che sia prassi diffusa e tollerata.

Si potrebbero citale moltissimi altri esempi di materiali chiaramente classificabili come "rifiuto" ai sensi della normativa italiana e europea e che invece attraverso questi apparentemente eterni meccanismi di interpretazione locale vengono di fatto considerate e trasformate in un non "rifiuto" e dunque lasciati liberi nel loro svilupparsi e divenire rispetto a ogni regola di gestione e controllo.

 

La tendenza ed eliminare la tracciabilità della filiera del ciclo del rifiuto

Ambedue i filoni sopra evidenziati hanno un comun denominatore finale di effetto: eliminare la tracciabilità della filiera del ciclo di smaltimento o recupero dei rifiuti. Tale tracciabilità appare in base alla normativa europea assolutamente ed inevitabilmente essenziale ai fini della corretta gestione di tutto il sistema di rifiuti a livello internazionale.

Infatti, se non vi è la traccia dei vari passaggi che il "rifiuto" persegue dal momento della produzione al momento del suo esito finale, chi delinque (anche in grande stile) viene assolutamente incoraggiato perché di fatto opera al buio per ogni forma di controllo e verifica amministrativa e investigativa.

Dunque, la nostra normativa originaria (Dlgs 22/1997), applicativa del sistema europeo, concentra i suoi punti di forza in ordine a tale aspetto su alcuni documenti essenziali che non sono meri esercizi burocratici o espressione di fastidi amministrativi per le aziende, ma che costruiscono il tessuto base prezioso ed essenziale per costruire la filiera della tracciabilità della vita del "rifiuto". Eliminare tali documenti — o renderli vani — significa puramente e semplicemente cancellare tale tracciabilità e privare la pubblica amministrazione di ogni possibilità di controllo.

I registri di carico e scarico e i formulari di identificazione dei rifiuti da utilizzare durante il trasporto sono i documenti principe in tale contesto.

A nostro avviso, i formulari per il trasporto sono un documento veramente principale e essenziale, perché i rifiuti scompaiono durante i viaggi e soltanto il formulario — se realmente utilizzato in quanto tale rispettando le regole — può consentire in parte di evitare tali illegalità e può determinare una chiave di lettura diretta e efficace per gli organi di controllo sia su strada durante il viaggio, sia in modo posticipato nel luogo della destinazione finale e nel sito di partenza iniziale.

Una specie, dunque, di impronta digitale del viaggio del "rifiuto" che lascia traccia e che, naturalmente, chi delinque tende, come tutte le impronte digitali sul luogo del delitto, a cancellare per evitare le conseguenze investigative. Ed oggi la tendenza a cancellare tale documento o a renderlo un mero foglio di carta tipo bolla accompagnatoria per una banale merce è purtroppo diffusa non soltanto ad iniziativa di coloro che tendono ad autoesonerarsi dal rispetto delle norme ma, addirittura, da parte di pubbliche amministrazioni locali e perfino ad opera di organi addetti ai controlli amministrativi e di Polizia.

 

La progressiva e silente eliminazione di fatto del formulario

Vi è una tendenza molto diffusa in questi diversi ambiti a sostenere che ora in un caso ed ora nell'altro, ora per un rifiuto ed ora per altro rifiuto, ora per una categoria ed ora per altra categoria o per un campo o un settore specifico il formulario può essere eliminato, deregolamentato o addirittura clonato. Non sembri irrituale questa ultima affermazione giacché abbiamo documentalmente notato in questi ultimi periodi alcune pubbliche amministrazioni locali che, pur in presenza di un modello di formulario chiaro ed espresso come unico possibile ed ufficializzato a livello nazionale, hanno incredibilmente creato "formulari alternativi" per gli utenti locali in modo difforme e con modello, appunto, diversificato rispetto a quello nazionale che ha caratteristiche di forte e blindata origine ufficiale.

In altri casi, meno elaborati, circolare e interpretative, prassi arcaiche distorte, disapplicazione di norme elevate ormai a diritto acquisito determinano la pratica inapplicabilità e desuetudine del formulario in molti settori di trasporto di rifiuti. Fanghi industriali e liquami zootecnici industriali, per restare in sinergia con l'esempio sopra citato, ne sono la conferma solare.

In altri casi, ancora, qualcuno non sa neppure ancora che il formulario esiste. E perfino alcuni addetti ai controlli amministrativi in alcuni casi scambiano oggi i formulari con le "bolle"...

Proviamo a controllare in alcune province o addirittura intere regioni il formulario per il trasporto dei rifiuti liquidi zootecnici industriali a livello quotidiano e noteremo non solo che il documento è inesistente per principio ma che addirittura tale presunta non necessità è santificata da alcune pubbliche amministrazioni e perfino da alcuni organi locali addetti al controllo. I quali, peraltro, difendono tale principio anche in sede seminariale e convegnistica.

Dunque, la convergenza verso l'azzeramento di fatto della normativa europea nel nostro ordinamento nazionale viaggia attraverso queste due forti veicolazioni che sono costituite da una parte dalla tendenza storica alla deregulation di tipo politico legislativo e dall'altra dalla incessante e capillare inclinazione sia di settori economico sociali sia di ambienti politico/istituzionali locali a deregolamentare caso per caso, e settore per settore, una gran massa di rifiuti industriali equiparandoli alle merci o alle materie prime. O, spesso, al nulla.

 

I riflessi della deregulation di diverso tipo sui sistemi di controllo ed investigativi

Tutto questo non può non avere un riflesso immediato e negativo sui sistemi di controllo e di sanzione. In via diretta, perché è chiaro che se comunque — per un verso o per l'altro — moltissime tipologie di materiali non vengono, sulla base di tale due tendenze, ad essere gestite come "rifiuti", è inevitabile che le tracciabilità formali (autorizzazione della PA, registri di carico e scarico, MUD, formulari di identificazione per il trasporto ed altro) non esistono e, dunque, gli organi addetti ai controlli non hanno la cartografia reale dei siti di produzioni dei rifiuti, dei percorsi di viaggio, dei luoghi di smaltimento o recupero finale.

È tutto invisibile e sotterraneo ed esiste dunque un mondo parallelo di gestione di rifiuti figlio di un dio minore che è reale sul territorio ma è invisibile a chi deve controllare.

Questo aumenta in modo esponenziale lo sforzo investigativo degli organi addetti ai controlli e comporta una necessità di forze e di energie che non sempre esistono nel contesto delle forze di polizia e dunque vanifica l'effetto dei controlli.

In via indiretta, tale meccanismo incessante genera poi incertezza del diritto giacché l'organo di controllo — seppure animato dalle migliori potenzialità investigative e dalla più elevata professionalità tecnica — si trova spesso di fronte su strada a situazioni di dubbio interpretativo e applicativo che derivano in parte dalla evoluzione normativa tendente alla deregulation sopra esaminata, e in parte anche dalle tendenze locali alle sottoclassificazione dei materiali come non rifiuto sopra sempre citate.

Questo genera disagio operativo, dubbi procedurali e certamente crea il rischio di scoraggiare anche il più efficiente e motivato degli organi di verifica.

Un esempio recente e importante della prima problematica è ravvisabile nella famosa legge sulla "interpretazione autentica della nozione di rifiuto" che ha creato e sta ancora creando nel nostro ordinamento giuridico una enorme confusione interpretativa e applicativa tra tutti gli addetti ai lavori e in particolare a danno degli organi di controllo. Tale norma, infatti, come noto a tutti, deregolamenta in base a un articolo specifico tutta una serie di rifiuti che vanno verso il riutilizzo purché presentino alcune caratteristiche dinamiche specificate nella norma stessa.

Il varo di tale normativa sta creando da anni una situazione di incertezza applicativa pratica sul territorio che inizia in sede di controllo su strada giacché l'organo di vigilanza si trova sistematicamente di fronte a contestazione sulla classificazione giuridica di quel materiale come "rifiuto" giacché l'interessato sostiene sulla base della norma predetta che si tratta ormai di un "non rifiuto". Da qui si genera a livello piramidale un'altra serie di lunghe ed inesauribili incertezze, giacché poi gli organi di controllo di vertice sono divisi sulle direttive da impartire ai dipendenti in ordine a tali interpretazioni, la magistratura a sua volta ha creato una distonia giurisprudenziale che vede sia le sentenze di merito che quelle di legittimità divise in modo antitetico per seguire alternativamente uno dei due orientamenti applicativi. Dopo una sentenza della Corte europea di Giustizia, che ha ritenuto non compatibile con la normativa europea tale specifica norma nazionale, la confusione anziché estinguersi si è ampliata giacché adesso il dibattito si è spostato sulla possibilità o meno di applicare la sentenza della Corte europea che induce, a sua volta, a disapplicare la normativa nazionale ritenendola in contrasto con i principi europei.

Possiamo provare ad immaginare quale riflesso di confusione possa determinare sul singolo operatore di polizia su strada tale complesso meccanismo di interpretazione nazionale e internazionale con conseguente incertezza del diritto che ancora oggi continua e che si riflette su rifiuti anche di particolare rilievo sotto il profilo della quantità e pericolosità generale.

Per citare un esempio in ordine invece al secondo aspetto, non vi è dubbio che in alcune aree provinciali o regionali forti disagi individua l'addetto al controllo laddove si trova — per ipotesi — a operare una verifica con conseguenze teoricamente penali per l'omissione di un formulario o di altri elementi basilari come il deposito temporaneo extra-aziendale non riconosciuto dalla norma nazionale e internazionale, mentre in quel territorio specifico la pubblica amministrazione locale competente in materia con un atto formale e vigente ha esonerato quel trasporto specifico dal formulario oppure ha autorizzato quel deposito temporaneo specifico fuori dal luogo di produzione di rifiuti aziendali. La confusione aumenta, addirittura, se tale deregulation antitetica rispetto alla norma nazionale e internazionale è attuata con accordi di programma, con circolari di pubblici amministratori alle forze di polizia o con, addirittura, leggi provinciali o regionali. Da questo quadro emerge una situazione di oggettiva difficoltà degli organi di controllo e di altre tante oggettiva realtà di vantaggio per tutti coloro che, a tutti i livelli, vogliono delinquere nel campo ambientale e dei rifiuti legali in modo particolare.

È logico che grandi forme criminali hanno intercettato questo terreno fertile e il loro innesto nel campo dei rifiuti è dovuto anche, oltre che ad altre cause endemiche, a tale situazioni di incertezza generale e di deregulation orizzontale e verticale ravvisabile nel nostro ordinamento nazionale e dentro la quale chi opera in modo criminale trova di volta in volta e caso per caso tutti gli spunti utili per farla comunque franca.

E questo fin dal primo momento del controllo su strada dove la situazione vigente non rassicura il sistema di controllo nel contesto della sua azione rispetto all'esito favorevole dell'accertamento.

 

GLI "SMALTIMENTI IN BIANCO" E LE "MAGIE" PER FAR SCOMPARIRE I RIFIUTI E SOSTITUIRLI CON "MATERIE PRIME" — LE FALSE OPERAZIONI DI RECUPERO

 

Come far scomparire giuridicamente un rifiuto

I sistemi di smaltimento illegale "classico" dei rifiuti seguono le filiere connesse alle tipologie di illeciti tipici quali discariche, tombamenti di cave abusive, stoccaggi fraudolenti, ed altre forme ormai protocollabili in sede di teoria investigativa.

Si e' tuttavia recentemente sviluppato — ed e' ormai dilagante — una diversa e piu' subdola forma di attività criminale che crea danni e conseguenze di pari o forse maggiore entità: gli "smaltimenti in bianco" dei rifiuti (soprattutto pericolosi).

Queste nuove tecniche seguono due filiere principali: i rifiuti trasformati fittiziamente e fraudolentemente in "materie prime" ed le false operazioni di "recupero" che mascherano invece forme di reale smaltimento.

La prassi di trasformare i rifiuti in "materie prime" corrisponde a metodiche, ora grossolane ora molto sofisticate a livello documentale, entro le quali si gioca sull'equivoco interpretativo del concetto di "rifiuto". Cosa succede in pratica?

In questo sistema (dove sono tutto dolosamente complici: produttore, trasportatore, titolare del sito finale) chi ha prodotto i rifiuti e chi deve smaltirli (o recuperarli) si accordano contrattualmente e attestano che non si tratta di una operazione di smaltimento (o recupero) ma di una ordinaria compravendita di materie prime commerciali. Di fatto, modulano tutti i meccanismi documentali e cartografici attestando deposito, trasporto e destinazione finale in un contesto commerciale di ordinarie materie prime commerciali. I rifiuti, quindi, in modo fittizio e fraduolento perdono nei documenti la loro identità di rifiuti e vengono indicati come ordinarie merci. La normativa del Dlgs 22/1997 viene cosi' completamente superata ed i rifiuti vengono gestiti in modo invisibile per i relativi meccanismi autorizzatori e di controllo. Nessun registro, nessun formulario, ma bolle e fatture commerciali. Ad una verifica in loco o su strada, si oppone all'accertatore un innocuo commercio di materie prime e continua la velina di invisibilità del sistema di gestione di tali rifiuti che vengono visti dagli organi di vigilanza ma non identificati come tali. A questo punto far scomparire nelle fasi finali i rifiuti in questione e' semplicissimo, dato che entro il contesto di disciplina della normativa specifica non hanno lasciato alcuna traccia ed, anzi, non sono mai esistiti.

Intermediari (illegali) e commercianti (illegali) sono tra i principali attori di questa collaudata sceneggiatura e le operazioni di trasferimento formale di proprietà e detenzione, qualifica di "produttore", compravendita e cessioni di vario tipo a ripetizionil, unitamente a bolle e fatture di appoggio, sono i principali strumenti per queste dissimulazioni che sortiscono il loro effetto se — come purtroppo a volte accade — l'organo di vigilanza sul sito o su strada non approfondisce gli accertamenti sulla esatta natura giuridica dei materiali e si limita a prendere atto delle dichiarazioni unilaterali e controinteressate di chi dichiara che "non sono rifiuti" (ed in questo contesto incide fortemente la sopra menzionata confuzione interpretativa ed applifcativa sopra esminata).

 

I "recuperi" fittizi: smaltimenti occulti — La deregulation tendente ad esonerare il recupero dalla gestione dei rifiuti

Le false operazioni di "recupero" che mascherano invece forme di reale smaltimento sono un secondo sistema dilagante, che rappresentano entità illegali autonome o sono il corolollario finale del precedente sistema appena esposto.

Anche in questi casi, cosa succede in pratica?

Dobbiamo partire da un presupposto generale. Il sistema di gestione dei rifiuti articolato dal Dlgs 22/1997 si compone di diverse fasi: raccolta — trasporto — stoccaggio — smaltimento o recupero finali. Va sottolineato che — contrariamente a quanto si pensa comunemente — il recupero dei rifiuti e' un'artività di gestione formale al pari dello smaltimemto e va autorizzata; inoltre e' soggetta a tutte le regole attive e passive della normativa di settore. Sono due operazioni di identica sistematicità giuridica, perche' lo smaltimemto e' previsto nell'allegato B del Dlgs 22/1997 ed il recupero nell'allegato C medesimo decreto. Poi, a livello gestionale e pratico, sono invece due operazioni antitetiche ed opposte. La prima e' sconsigliabile sotto il profilo ambientale mentre la seconda, posta gerarchicamente dopo il concetto di ridurre a monte la produzione di rifiuti, e' senz'altro operazione prediletta dalla norma europea e nazionale. Ma seppur con tali veste di privilegio sistematico, e' pur sempre un'operazione di gestione di rifiuti e dunque chi opera come recuperatore in questo settore e'un "gestore" di rifiuti a tutti gli effetti formali e sostanziali entro il contesto del Dlgs 22/1997. Al pari — va precisato — di uno smaltitore. Anche se la sua attività come premesse, contenuti, forme e soprattutto finalità e' all'opposto di quella dello smaltitore. Ma formalmente — a livello di gestione ed autorizzazioni, documenti ed adempimenti — smaltitore e recuperatore sono uguali: si tratta di "gestori di rifiuti".

Consegue, dunque, che sia lo smaltitore che il recuperatore devono essere visibili entro la normativa di settore perche' entrambi — comunque — sono sito finale di destinazione del ciclo del viaggio dei rifiuti e dunque devono dare conto della loro attività alla pubblica amministrazione in quanto entrambi — seppur per finalità opposte e con sistemi gestionali antitetici tra loro — sono il centro terminale di ampie masse di rifiuti che partono dai luoghi di produzione e giungono nei relativi impianti ogni giorno per essere comunque trattati in fase finale.

Dunque, e' logico ed inevitabile che il titolare di un centro di smaltimento e di un centro di recupero devono comunque ricevere i materiali come "rifiuti" nel contesto del Dlgs 22/1997 e rispettare le regole documentali connesse (ivi compresi registri in loco e formulari in itinere).

Ma su questo punto sussiste un grave problema "storico" nel nostro Paese, connesso direttamente alle tematiche sulla deregulation sopra tracciate.

Infatti mentre i centri di smaltimento (ad es. discatiche o inceneritori) ritengono fisiologicamente connessa la loro attività alla gestione diretta dei rifiuti, le aziende che invece acquistano rifiuti da sottoporre a "recupero" in moltissimi casi non sono centri specifici finalizzati esclusivamente a trattare rifiuti ma sono in realtà industrie "normali" che producono ordinarie materie prime commerciali e che tendono ad esonerarsi dalla funzione di "gestore di rifiuti" e dagli adempimenti formali connessi. Sono aziende che nel loro regime produttivo finalizzato alla produzione e commercializzazione di quotidiani articoli di consumo, in luogo di acquistare materie prime classiche acquistano rifiuti recuperabili. Dal loro punto di vista, in questo senso il rifiuto che giunge all'ingresso del regime produttivo e' assolutamente equiparabile ad una materia prima ordinaria. E quindi pretendono di acquistarlo come tale. Dunque con bolle e fatture. E non si ritengono "gestori" di rifiuti, non vogliono tenere i registri di carico e scarico, compilare il MUD e soggiacere alle regole del formulario edi identificazione in arrivo. Nellas visione di tali aziende, acquistare e ricevere una materia prima ordinaria ed un rifiuto da recuperare e' esattamente la stessa cosa.

Se questo puo' essere vero dal punto di vista pratico interno aziendale, dal punto di vista esterno e nella genesi delle materie non e' affatto cosi'. Perche' le materie prima normali che nascono come tali viaggiano secondo gli ordinari sistemi di regole commerciali basati su bolle e fatture, mentre i rifiuti da recuperare (che poi saranno trattati dall'azienda finale al pari delle materie prime nel suo interno) nascono appunto come rifiuti e devono viaggiare ed essere accettati con il sistema del formulario (al quale si puo' naturalmente aggiungere — ma non sostituire — la fattura essendo gli stessi rifiuti anche oggetto di un rapporto commerciale).

Da qui il filo conduttore con la tendenza alla deregulation sopra citata è diretto, e ne costituisce ua terza ipotesi molto diffusa.

Infatti, se l'azienda finale rifiuta... i rifiuti, e pretende di considerarli materie prima, si innesta in modo retroattivo un meccanismo a catena che di fatto fa scomparire giuridicamente i rifiuti fin dall'origine nel luogo (anche remoto) di produzione. Ecco la necessità del "non rifiuto"...

Infatti, se i materiali devono arrivare al sito finale come "non rifiuti" e dunque come "materie prime", non possono viaggiare con il formulario; e se non sussiste il formulario, il viaggio e' incontrollabile sotto il profilo gestionale e sanzionatorio del Dlgs 22/1997; inoltre a monte il carico senza formulario presuppone che nel luogo di produzione non sia considerato rifiuto in deposito temporaneo o staccaggio, e dunque si liberalizza anche tale forma di gestione iniziale che per forza di cose resta priva di registri di carico e scarico ed ogni altro adempimento. E di fatto tutto il ciclo di rifiuti scompare dall'inizio e quelli che sono a tutti gli effetti rifiuti ai sensi del Dlgs 22/1997 vengono trattati come ordinarie materie prime commerciali, fin dalla originaria produzione. Con conseguente totale invisibilità per il regime di autorizzazione, gestione, controllo e sanzioni del Dlgs 22/1997.

In altri casi, le aziende produttrice sono costrette a considerare questi materiali come rifiuti a monte ma con abili meccanismi di "ripulitura giuridica" in viaggio praticamente trasformano, con l'accordo di operatori terzi in itinere che modificano sostanzialmente i documenti facendo finta che hanno effettuato anche inesistenti trattamenti intermedi sulla massa dei rifiuti, i rifiuti in "materie prime". E consentono cosi' alle aziende che li acquistano per recuperarli di acquistarli formalmente come materie prime anche se invece sono esattamente i rifiuti che sono partiti dal luogo originario di produzione.

 

Le forme criminali innestate nel campo dei recuperi fittizi

Questo fenomeno, già grave in se stesso, ha generato per effetto paradossale una situazione ancora piu' devastante giacche' si e' innestato su tali meccanismi il crimine organizzato o comunque una diffusa illegalità associata di fatto.

Infatti, in origine questo sistema era limitato a irregolarità formali, mentre le aziende interessate limitavano il loro operato — in genere — ad eludere solo documentalmente i meccanismi gestori del Dlgs 22/1997 ma in realtà non operavano poi attivitàillecite sostanziali nelle attività di recupero che venivano condotte in modo sostanzialmente corretto, anche se formalmente in modo illegale. Il danno era dunque esistente ma contenuto e forse proprio per questo motivo sottovalutato dagli organi di vigilanza che, naturalmente, erano concentrati sugli aspetti piu' gravi degli smaltimenti abusivi.

Chi delinque in modo organizzato, o comunque con prassi associative di fatto e con criteri piu' raffinati, ha percepito questa nuova ed insperata opportunità. Infatti la filiera degli smaltimenti illegali era ormai intrisa di ostacoli, giacche' progressivamente organi di vigilanza e magistratura hanno perfezionato protocolli investigativi e repressivi di sempre maggiore efficacia e presenza sul territorio. Dunque la strada dello smaltimento abusivo iniziava a diventare minata per chi voleva continuare a delinquere in modo sistematico. Si e' dunque percepita la fertile strada alternativa dei recuperi abusivi. Una strada soggetta storicamente a minori controlli, meno sospettata di radici di illegalità, ricca di nuove prospettive operative. E di fatto si sono trasferiti in blocco dal sistema degli smaltimenti abusivi "classici" interi meccanismi — rimasti pressoche' identici — nel campo dei recuperi per mascherare gli smaltimenti con le operazioni di recupero (meno controllate, privilegiate amministrativamente e politicamente, e soggette a finanziamenti pubblici!).

In particolare, si e' sfruttato abilmente la prassi — purtroppo lasciata dilagare in precedenza — delle aziende di recupero che pretendono di acquistare i rifiuti come materie prime, ed il gioco e' stato semplice e fruttoso. Provate ad innestare sul meccanismo retroattivo sopra esposto — entro il quale di fatto il rifiuto scompare dall'origine e diventa fittiziamente "materia prima" — al posto di un'azienda di recupero normale un'azienda gestita da criminali ambientali che opera al suo interno un normalissimo smaltimento mascherato da recupero. Di fatto si e' trovato il sistema di annidare gli smaltimenti illegali dentro il falso paravento del recupero, sfruttando poi le prassi della estinzione dall'origine della qualifica di rifiuti. Cosi' enormi masse di rifiuti vengono formalmente a monte classificate "materie prime"; scompaiono i depositi temporanei e gli stoccaggi, i registri e gli altri documenti; il trasporto avviene senza formulario ma con bolle e fatture (a loro volta fittizie); all'arrivo nel sito finale vengono scaricate "materie prime" di ordnario uso; chiusi i cancelli, si inizia all'interno lo smaltimento illegale per quelli che erano e sono rimasti rifiuti a tutti gli effetti.

In altri casi, partono a monte rifiuti (in gran parte pericolosi) e poi in viaggio con il meccanismo di "ripulitura giuridica" fittizia a livello cartografico sopra esposto vengono formalmente trasformati in "materie prime"; cessa il formulario e sopraggiunge la bolla; e la destinazione e' quella appena descritta con il medesimo esito.

Queste forme perniciose sono ormai dilaganti, ed hanno infestato il mondo del recupero che usano come schermo per le loro attività criminali. Facendo danno non solo all'ambiente, ma anche alla categoria dei reali recuperatori che in tale contesto vengono spesso confusi con realtà illegali o soggetti a controlli stringenti che generano poi proteste e reazioni delle associazioni di categoria.

Il problema e' dunque complesso, e tanto abile e' la strategia dei criminali da avere trasformato il mondo del recupero in un ostaggio diffuso dietro il quale nascondersi e mischiare le carte in tavola.

Dunque da un lato e' oggi assolutamente necessaria una ulteriore specializzazione degli organi di vigilanza per identificare questi flussi anche attraverso l'esame attento di atti e documenti che sono la chiave di lettura di questi traffici, dall'altro sarebbe auspicabile una reazione forte delle associazioni di categoria delle ditte di recupero che lavorano nella legalità per collaborare a denunciare e segnalare i casi di illegalità a loro stessa tutela e consentire agli investigatori indagini mirate contro i criminali.

Ma la strada dei recuperi abusivi non transita soltanto nelle aziende illegali in senso stretto intese come insediamenti industriali, perche' si e' estesa anche in forme di piu' silenti e sparse sul territorio in modo virtuale.

Uno dei casi da manuale che conferma — purtroppo — la teoria fin qui esposta e' quello — già sopra citato — del "recupero" dei fanghi da depurazione, liquami zootecnici e residui oleari da frantoi. Tre tipi di materiali fortemente impattanti sull'ambiente e che hanno un comun denominatore: sono diventati il terreno di coltura per grandi episodi di "smaltimento in bianco" sui terreni dissimulati da innocue ed anzi utile operazioni di "recupero" entro le quali i rifiuti scompaiono giuridicamente, come per magia...

Vediamo qualche esempio concreto, tenendo presente che tali prassi criminali sussistono anche per altri tipi di rifiuti, ma il meccanismo — con le dovute differenze per le filiere dei materiali — e' lo stesso. Si pensi ad esempio ad una importante inchiesta — finita sulle cronache — che ha accertato l'utilizzo di rottami ferrosi come veicolo per far giungere in fonderia materiali radioattivi.

Ma veniamo al significativo esempio dei terreni utilizzati come "recupero" di rifiuti fangosi i liquidi, e diventati invece il sito privilegiato di pericolosissimi "smaltimenti in bianco".

 

I terreni usati come pattumiere per "recuperi" che mascherano pericolosi smaltimenti illegali di fanghi e liquami

I terreni usati come pattumiere per rifiuti pericolosi di ogni tipo. Gli smaltimenti dissimulati "in bianco" attraverso la ripulitura giuridica dei rifiuti che partono come tali ed arrivano come "materie prime" grazie ad abili giochi cartacei e documentali.

A nostro avviso, questi sono i nuovi fronti dei crimini ambientali. Che trovano peraltro alimento anche nelle sopra citate interpretazioni arcaiche e distorte delle norme anche da parte di alcuni amministrazioni che ritengono i terreni ormai la destinazione naturale di ogni tipo di rifiuti con presunte chiavi di deregulation costituite da fertirrigazioni, utilizzi agronomici, spandimenti e riutilizzi a fini agricoli. Pratiche che in realtà in tantissimi casi nascondono puramente e semplicemente smaltimenti di immense quantità di fanghi, liquami, reflui e rifiuti pericolosi di ogni tipo su terreni incolti destinati a corpo ricettore e pattumiera privilegiata (ed economica) di ogni tipo di rifiuto industriale. Puro o "ripulito" giuridicamente attraverso giri di carte e documenti che, come per magia, trasformano i rifiuti in "materie prime" o sostanze utili per i terreni.

Esiste un comun denominatore che lega spandimento di fanghi abusivi, fertirrigazione con liquami zootecnici illegali, spandimenti di reflui da frantoi oleari illeciti ed altre pratiche che hanno un dato comune: l'utilizzo dei terreni (fittiziamente) agricoli per smaltimenti a basso costo, dietro il paravento delle sigle di pratiche agricole di facciata. I danni per gli ecosistemi sotterranei, e la falde acquifere in modo particolare, sono facilmente immaginabili e le conseguenze, non immediatamente visibili, sono proiettate negli anni futuri in modo indefinito ed incontrollato.

Citiamo, a titolo di esempio, una delle tante brillanti operazioni di polizia giudiziaria che ha smascerato ancora una volta, l'ennesima attività dedita appunto a smaltire i rifiuti con tali meccanismi. Operazione condotta — come tante altre — dal Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente che si è distinto in questi anni per l'eccellenza delle investigazioni in questo ed altri difficili settori.

Una nota pubblicata su un sito internet in data 8 Marzo 2004 spiega perfettamente i meccanismi del crimine ed i termini dell'inchiesta:

" Ecoreati — In provincia di Venezia undici arresti e centinaia di indagati — Houdini e la magia dello smaltimento illecito

Sgominata un'organizzazione criminale che faceva carte false per trasformare in inerti i rifiuti pericolosi. Una fitta rete di collusioni che ha interessato intermediari, trasportatori, titolari di centri di stoccaggio e laboratori di analisi

Undici ordinanze di custodia cautelare e un centinaio di indagati. Il nome dell'operazione dei Carabinieri, Houdini, del Nucleo operativo ecologico di Venezia e del reparto Carabinieri Tutela ambiente di Roma la dice lunga sulla destrezza dei protagonisti di un traffico di rifiuti pericolosi in varie città italiane. Il blitz scattato nelle prime ore di stamane è coordinato dalla procura di Venezia. L'accusa per i soggetti raggiunti dal provvedimento restrittivo è di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, falso ideologico materiale, immissione nell'aria di polveri e fumi inquinanti.

L'operazione è denominata "Houdini" per l'abilità degli indagati nel "trasformare" i rifiuti pericolosi in non pericolosi o addirittura in materiale inerte. Dopo due anni di indagini, il Noe dei carabinieri ha individuato e disarticolato un'organizzazione di ecocriminali, «altamente specializzati» con base strategica nella provincia di Venezia.

L'organizzazione, attraverso la falsificazione di documenti di trasporto, certificati di analisi e la simulazione di operazioni di recupero, per anni avrebbe illecitamente smaltito centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti speciali pericolosi presso siti non autorizzati dell'intero territorio nazionale, con gravissimo danno all'ambiente.

L'indagine è partita nel 2001 con il sequestro a Rieti di una cava utilizzata per smaltire illecitamente rifiuti pericolosi. Ma, secondo quanto accertato dai Carabinieri del Noe, sono numerosi in tutta Italia i siti destinati dai criminali ambientali per eliminare rifiuti pericolosi. Oltre alle cave che sarebbero utilizzate per la ricomposizione ambientale, figurano anche terreni agricoli e laghi naturali dove finivano rifiuti speciali pericolosi composti soprattutto da fanghi industriali, scorie e polveri prodotte da impianti siderurgici. In passato sono stati intercettati anche 300 fusti di pentasolfuro di fosforo (sostanza cancerogena altamente pericolosa per l'uomo e l'ambiente). Oltre agli arresti i carabinieri hanno eseguito decine di perquisizioni e altrettanti sequestri di aree, tra cui i due più grandi depositi italiani di stoccaggio.

Fulcro del traffico sarebbero state le società **** (Venezia), uno dei più grandi impianti di gestione rifiuti d'Italia, già coinvolta in passate indagini, e **** (Venezia), le quali, secondo gli investigatori, hanno organizzato a livello nazionale l'illecito traffico avvalendosi di una fitta rete di collusioni, che ha interessato intermediari, trasportatori, titolari di centri di stoccaggio, recupero e smaltimento, laboratori di analisi, tutti saldamente inseriti nel contesto criminale.

In comune il "modus operandi", finalizzato di fatto a far "scomparire" determinate tipologie di rifiuti speciali pericolosi (terre di bonifica, scorie e polveri di fonderia, fanghi industriali) mediante operazioni di miscelazione indiscriminata; il materiale veniva avviato poi allo smaltimento in discariche non idonee oppure utilizzato per ripristini ambientali, formazione di rilevati e sottofondi stradali, attività per produzione di ammendanti e fertilizzanti (compost). A conclusione dell'inchiesta, il Gip veneziano Licia Marino, su richiesta del pm Giorgio Gava, ha emesso 7 ordinanze custodia cautelare in carcere e 4 ordinanze di custodia cautelare arresti domiciliari.".

I titoli dei giornali locali sono stati significativi.

"Cosi' hanno avvelenato terreni e cave — Sostanze tossiche smaltite al risparmio per trarre profitto anche con la compiacenza di aziende agricole" ("Il Gazzettino" del 9/5/04) — " Colossale traffico di rifiuti pericolosi, undici arresti — Secondo i Carabinieri i titolari declassificavano il materiale per guadagnare sullo smaltimento. Settanta indagati" ("Il Gazzettino" del 9/5/04) — "Inquinavano mezza Italia, arrestati — L'accusa:rifiuti tossici usati come fertilizzanti — Ora vanno controllate le falde acquifere" — "Fanghi alla diossina come fertilizzanti" ("La Nuova Mestre" — 9/4/04) .

Questa inchiesta e' una ormai delle tante avviate e concluse in questi anni, con terreni destinatari di smaltimenti illegali ora di fanghi ora di liquami.

In questo scenario di drammatico ed illegale impatto ambientale, appare stupefacente che in diverse sedi, anche autorevoli, c'e' ancora chi insiste a sostenere tesi giuridiche in base alle quali i fanghi, i reflui zootecnici, i rifiuti liquidi provenienti da vari tipi di insediamenti, se diretti verso "un uso agricolo" sarebbero totalmente resi esenti sia dalla normativa sui rifiuti che dalle regole sugli scarichi. Nessun registro di carico e scarico, nessun fomulario, nessuna regola e nessun controllo. Tutto di "uso agricolo" e deregolamentato.

E' logico che chi delinque, e lucra in modo smodato su tali affari criminali, fonda il proprio operato proprio su tale presunta deregulation strisciante che di fatto sortisce l'effetto di rendere tali rifiuti zona franca dai controlli e dunque di poter riversare sui terreni ogni devastante residuo industriale, puro o miscelato o "ripulito" giuridicamente, senza incorrere in alcun controllo e sottostare ad alcuna regola.

 

IL FUTURO DELLA NORMATIVA AMBIENTALE NEL NOSTRO ORDINAMENTO — DEPENALIZZAZIONE O DELITTI PER GLI ILLECITI DI SETTORE?

 

Il Dlgs 22/1997 tra poco sarà solo un ricordo. E' stata infatti attivata la procedura politico/istituzionale per la revisione generale della disciplina giuridica anche sui rifiuti attraverso la cosiddetta "legge delega ambientale" che dovrebbe determinare una rielaborazione profonda della normativa di settore nel nostro Paese. Allora è tempo di bilanci.

E' in atto un articolato dibattito sul punto se la "delega" è veramente lo strumento idoneo per sanare tutto il quadro sopra esposto.

I primi orientamenti, a nostro avviso, non sono incoraggianti. Non è questa la sede per approfondire le tematiche connesse a tale evoluzione legislativa in atto, ma non possiamo esimerci dal riaffermare — sempre con l'obiettivo di garantire nel nostro sistema una positiva strategia di contrasto soprattutto alla criminalità organizzata nel campo ambientale — che servono norme e strumenti forti per consentire alle forze di polizia ed alla magistratura penale di intervenire in modo efficace e penetrante in settori entro i quali oggi i modesti reati contravvenzionali o — peggio — le depenalizzazioni non consentono neppure di attivare strumenti investigativi importanti ed invasivi.

In mateeria di reati ambientali non è ben chiaro cosa sta per succedere. Le notizie sono — in progressione — indice di apparenti contraddizioni. Proposte di depenalizzazione avanzate in diverse sedi e — contemporaneamente — progetti istituzionali in corso per inserire nel nuovo codice penale gravi delitti ambientali. Cosa sta per succedere — dunque — nella tutela penale dell'ambiente?

Le tendenze per la depenalizzazione degli illeciti in materia ambientale sono sempre molto forti e diffuse. E questo — a fianco della deregulation sostanziale sopra citata — è stato altro elemento forte che ha caratterizzato una svuotamento del reale recepimento della disciplina europea sui rifiuti nel nostro ordinamento. La scelta di trasformare le sanzioni penali in irrisorie sanzioni amministrative ha vanificato effetti deterrenti e repressivi su molti importanti illeciti. E questo punto non va sottovalutato. Le grandi inchieste sopra citate , gli accertamenti clamorosi che le cronache recenti ci stanno documentando e che mettono in luce devastazioni ambientali senza controllo e con danni senza limiti, hanno come presupposto essenziale per la loro esistenza il sistema penale. Senza ipotesi di reato e procedure connesse, nessun caso di grave impatto ambientale potrebbe essere verificato. Ma questo ci impone comunque una riflessione. Perché le grandi inchieste hanno spesso inizio da un caso minimo. E la tutela penale non va dunque ricollegata solo ai "grandi" eventi di rilevante gravità ma va conservata anche per i reati ordinari nel campo ambientale.

Oggi stiamo assistendo — a fianco della tendenza alla depenalizzazione — ad apprezzabili e condivisibili progetti er inserire nel nuovo codice penale in fase di stesura dalla "Commissione Nordio" una serie di ipotesi specifiche relative al campo ambientale. Certamente si tratta di un pacchetto di reati-delitto importanti che non possiamo non condividere. Ma quello che suscita la nostra perplessità è che nello stesso progetto della Commissione si tende ad eliminare tutti i reati contravvenzionali oggi esistenti nel campo penale. In pratica — da quello che emerge dai documenti resi pubblici in particolare in sede di audizioni in sede parlamentare — il nuovo sistema vedrebbe concentrati gli illeciti penali di settore in alcuni grandi reati tipo delitto con contestuale depenalizzazione — tuttavia — delle altre ipotesi oggi contravvenzionali sempre penali.

Appare realisticamente difficile poter riassumere in alcuni delitti specifici nel codice penale tutte le varie e diffuse fattispecie di violazioni gravi insistenti nel campo ambientale; per forza di cose, dunque, questi gradi reati-delitti andranno verosimilmente a coprire un settore di eccellenza delle violazioni connesse ai casi di maggiore gravità. E dunque depenalizzare contemporaneamente tutti gli altri reati — oggi contravvenzionali — significherebbe privare della tutela penale sostanziale e soprattutto procedurale fattispecie diffuse e significative con un rilevante effetto negativo. Va infatti sottolineato che oggi molte grandi inchieste concluse con contestazione di reati addirittura associativi ed emissione di ordini di custodia cautelare sono scaturite da un originario e modesto accertamento con sanzione contravvenzionale penale che ha poi consentito di estendere gli accertamenti con strumenti procedurali appunto penali e di giungere così ai più importanti risultati finali. Ma se si depenalizza questa vasta area di reati-base,si toglie all'organo accertatore la possibilità di individuare sul territorio da episodi inizialmente di piccola o media gravità che poi sono la chiave di lettura per i grandi delitti. Prevedere dunque solo grandi ipotesi di reati depenalizzando le altre fattispecie e riducendole al rango di insignificanti sanzioni amministrative significa da un lato non garantire una efficace azione repressiva contro il microcosmo diffuso di illegalità ambientali e poi inibire all'organo di controllo l'uso di strumenti procedurali penali per sviluppare i primi risultati per raggiungere poi — se esistenti — le prove su fattispecie di maggiore gravità. E questo perché il sistema sanzionatorio amministrativo, oltre che essere di per se stessa di scarsa efficacia deterrente e repressiva in un settore ove il lucro smodato vanifica ogni sanzione basata solo su pagamento di una somma di denaro, non consente di attivare tutti gli strumenti procedurali investigativi penali nel contesto degli accertamenti iniziali e si limita ad una verbalizzazione e pagamento somma.

Anche nelle recenti grandi inchieste, iniziali ipotesi di reato contravvenzionali hanno poi consentito sequestri, perquisizioni aziendali e altri strumenti procedurali progressivi che hanno infine determinato la scoperta del traffico finale. Ma non si giunge ad un traffico se non si investiga a livello originario in via procedurale penale su casi iniziali in se stessi isolati e contravvenzionali, ma che poi danno in approfondimento di indagine la base strutturale per i reati-delitto di maggiore rilievo

Si deve rilevare che oggi la legislazione in materia, improntata per lo più sulla base di reati contravvenzionali (o addirittura incardinata su sanzioni amministrative) e spesso mal coordinata, non consente allo stato attuale di intervenire con proporzionata energia giurisdizionale nei confronti di questo complesso fenomeno.

Gli strumenti allo stato offerti possono oggi essere già difficilmente utilizzati (non sempre con garanzia di successo) verso i fenomeni ordinari di illeciti ambientali, ma sono del tutto inadeguati verso il nuovo business basato sullo smaltimento dei rifiuti pericolosi da parte del crimine organizzato. Ma va rilevato che accanto alla "ecomafia" in senso stretto, sussiste un parallelo e non meno grave fenomeno di microillegalità diffusa che determina una rete, estesa spesso a livello provinciale o regionale, di aziende e strutture che operano il traffico e lo smaltimento dei rifiuti di origine artigianale o industriale con un sistema di totale illegalità. E ciò accade ormai da tempo remoto. A tal punto che, stante la radicalizzazione ed estensione di tali attività nel tempo e nello spazio, esse sono diventate vere e proprie realtà oggettive spesso confuse con diritti acquisiti alla violazione sistematica della legge.

Non si tratta di organizzazioni criminali in senso stretto, ma comunque la portata di queste realtà determina un mondo parallelo di illegale e sotterranea gestione dei rifiuti nonché degli scarichi; e tutto ciò, visto nell'ottica nazionale, rappresenta una dimensione certamente non meno importante della vera e propria criminalità organizzata in senso stretto.

Ha contribuito fino ad oggi alla estensione di ambedue i fenomeni ("ecomafia" diretta e microcriminalità ambientale diffusa) diversi fattori certamente la scarsa chiarezza ed efficacia della normativa specifica di settore, la quale — per i motivi sopra esposti — in realtà non ha offerto fino ad oggi grandi e significativi spunti di intervento operativo immediatamente attuabile sul territorio né, va detto, una prospettiva di interessanti soddisfazione in sede processuale.

Si deve, dunque, sottolineare che la modifica normativa che ci si accinge a diversi livelli ad elaborare costituisce una evoluzione importantissima e significativa, che va a radicarsi e ad incidere sulla realtà sommariamente sopra esposta, e costituisce mezzo importantissimo per determinare una attiva evoluzione dell'attuale fase con effetti che possono essere salutari e migliorativi o — al contrario — di azzeramento totale di ogni ipotesi di controllo e vigilanza oggi esistente.

Non vi è dubbio, infatti, che solo un pacchetto di norme varate con coerenza sinergica e basate su un comune denominatore sinergico che renda efficace ed articolato il sistema procedurale e sanzionatorio, potrà rappresentare linfa vitale per attivare finalmente i controlli sul territorio a livello capillare diffuso.

Noi riteniamo che il primo punto che deve essere posto all'esame del nostro legislatore è quello della operatività degli organi di polizia giudiziaria sul territorio, giacchè è logico che la sede processuale (che pure va potenziata a livello di supporto normativo) resta del tutto inutile se i casi illeciti non vengono accertati e messi in luce in prima istanza sul territorio dagli organi addetti alla vigilanza.

E verificare tali fenomeni sulla strada e nei siti interessati dalle attività sopra esposte comporta la inevitabile necessità di una efficace ed agile struttura normativa procedurale a disposizione degli organi investigativi per sviluppare strategie che, per forza di cose, devono essere sostanzialmente diverse e più impegnative (anche invasive) rispetto agli strumenti normativi adottati per gli illeciti ambientali in via ordinaria.

Di conseguenza, un adeguamento importante delle norme procedurali di prima applicazione sul territorio rappresenta condizione essenziale per favorire la ricerca e la denuncia all'autorità giudiziaria di tali gravi reati.

Su tale obiettivo è, dunque, importante un particolare impegno in sede di riforme con lo specifico intento di predisporre un insieme di proposte inerenti strumenti da offrire a disposizione degli organi investigativi nella primissima fase degli accertamenti (già nella flagranza del reato) e nel contempo al Pubblico Ministero per la fase immediatamente successiva.

Non va infatti dimenticato e sottaciuto che uno dei veri problemi allo stato attuale è rappresentato dalle difficoltà procedurali e normative generali incontrate dall'organo di polizia già al momento del controllo sulla strada del veicolo che presumibilmente trasporta rifiuti destinati ai circuiti sopra esposti; veicolo che fino ad oggi è stato difficilmente controllabile, sia per carenza di strumenti legislativi che per difficoltà pratiche e quotidiane (tra le quali un banale prelievo estemporaneo per dirimere i primi dubbi sul fumus o meno del reato).

In via immediatamente successiva, e conseguenziale, rispetto a tale prima integrazione normativa apparirà significativa la proposta di introdurre nuovi più penetranti strumenti normativi in sede di validità del sistema probatorio processuale, giacchè fino ad oggi il criterio della prova per tali reati apparare lacunoso e consente facili elusioni con cavilli procedurali da parte della difesa tecnica.

Ancora, primario è quello di proporre l'introduzione di ipotesi sanzionatorie, dal contenuto quantitativo e qualitativo rilevante, sia a livello repressivo in senso stretto sia a livello di conseguenza deterrente accessorio.

Il carattere associativo, o comunque sostanzialmente organizzativo, dei reati in questione non può essere affrontato con le sole sanzioni contravvenzionali, ma impone la creazione proporzionale di ipotesi sanzionatorie più pregiate e severe. Certamente la depenalizzazione è sinonimo di azzeramento deterrente e repressivo, oltre che procedurale/operativo in sede di primi controlli su strada ed in loco.

Ed il sistema delle pene accessorie, con la tendenza a incidere sul patrimonio economico ed operativo dei soggetti e delle organizzizzazioni responsabili, costituisce importantissimo strumento repressivo parallelo per raggiungere l'obiettivo di stroncare i fenomeni in questione. L'incidenza pratica andrà inevitabilmente a influire sul calcolo costi-benefici per i soggetti interessati, i quali allo stato guadagnano cifre rilevantissime a rischio bassissimo o quasi inesistente (e questo rappresenta incoraggiamento per il dilagare del fenomeno).

Va rilevato, su questo specifico punto, che il Dlgs 22/1997 costituisce già oggi primo significativo passo innovativo in questa direzione, allorquando prevede la confisca obbligatoria dei mezzi serviti per il trasporto e traffico illecito dei rifiuti, nonchè la confisca delle aree destinate a discarica abusiva (e da ciò si deduce conseguente logica obbligatorietà dei sequestri di iniziativa operati in flagranza dalla polizia giudiziaria o comunque successivamente dal Pubblico Ministero).

Dunque, sarebbe auspicabile che l'evoluzione normativa utilmente si articolasse nella direzione di predisporre innovazioni legislative che vadano a incidere, come criterio logico temporale ed operativo, in primo luogo sulla operatività della polizia giudiziaria sul territorio, sul valore probatorio degli accertamenti così eseguiti, e sulla natura ed entità del sistema sanzionatorio finale.

L'emanazione di norme certe e chiare andrebbe a ridisegnare una oggettiva qualificazione giuridica nel campo specifico cancellando la fase di incertezze pratiche e di principio dettate dalla attuale normativa e, dunque, vi sarebbero spazi, e strumenti, per rilanciare appieno le attività investigative a livello territoriale diffuso sia sugli illeciti ordinari che, come logica conseguenza, sui più gravi reati che vedono sullo sfondo l'apporto della criminalità organizzata.

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