Responsabilità 231

Documentazione Complementare

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Assonime (Associazione fra le società italiane per azioni)

Circolare 28 maggio 2012, n. 15/2012

Reati ambientali e responsabilità amministrativa degli Enti

Introduzione

Per effetto di una modifica legislativa di luglio 20111 , i principali reati ambientali sono stati aggiunti nel catalogo dei reati da cui può derivare la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.

All'elenco dei reati previsto dal Dlgs 231/2001 si aggiungono, dunque: i reati in tema di specie animali e vegetali protette; distruzione di habitat all'interno di un sito protetto; scarichi idrici; gestione dei rifiuti; bonifica dei siti inquinati; emissioni in atmosfera; riduzione e cessazione dell'impiego delle sostanze lesive per l'ozono; sversamento di idrocarburi e altre sostanze da parte delle navi nonché, i nuovi reati di cui agli articoli 727-bis e 733-bis del Codice penale2 .

Il provvedimento era atteso da un decennio e già la legge delega 300/2000 contemplava alcune fattispecie di reato in materia di tutela dell'ambiente e del territorio, mostrando sensibilità per il tema della responsabilità dell'impresa per i reati ambientali.

Sebbene la legge delega sia poi rimasta sotto questo profilo inattuata – dal momento che il Governo fece una scelta iniziale "minimalista" limitata ai reati di corruzione, concussione e frode – la successiva progressiva estensione dell'ambito di operatività del Dlgs 231/2001 ha reso inevitabile questo ulteriore ampliamento.

Anche il rilievo che gli illeciti ambientali sono spesso di natura colposa e non dolosa non è più un argomento sufficiente per sottrarli alla disciplina del Dlgs 231/2001, il quale annovera tra i reati presupposto anche quelli, colposi, relativi alla sicurezza sul lavoro (omicidio colposo e lesioni gravi commessi in violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene e della salute sul lavoro)3 .

Peraltro, anche prima del decreto legislativo in commento, si era sostenuta l'applicabilità del Dlgs 231/2001 agli illeciti ambientali sulla base di una norma del Testo unico in materia di ambiente (Dlgs 3 aprile 2006, n. 152) che, in relazione al (solo) divieto di abbandono e deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo, afferma la responsabilità solidale della persona giuridica qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti dell'ente, "secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni" (articolo 192, comma 4, Tu Ambiente).

Chiamata a pronunciarsi sull'applicazione di questa norma, la Suprema Corte penale non ha tuttavia ritenuto sufficiente la previsione dell'articolo 192 comma 4 per estendere all'ente la responsabilità per gli illeciti ambientali connessi all'esercizio dell'impresa, e ha escluso l'applicabilità del Dlgs 231/2001 in relazione ai reati ambientali previsti dal Tu4 .

La dottrina suggeriva di interpretare il rinvio delle norme ambientali al sistema previsto dal Dlgs 231/2001 per attribuire all'ente la responsabilità civile e non quella amministrativa o da reato5 .

Si auspicava comunque un intervento riformatore che riordinasse la normativa esistente e delineasse con maggiore puntualità la struttura degli illeciti ambientali.

Il decreto legislativo 121/2011, anche se non ha realizzato l'obiettivo sperato di riformare la materia6 , si è reso necessario per attuare la direttiva n. 2008/99/Ce sulla tutela penale dell'ambiente e la direttiva n. 2009/123/Ce (che ha modificato la direttiva n. 2005/35/Ce) relativa all'inquinamento provocato dalle navi.

In particolare, si segnala l'importanza della prima direttiva citata (2008/99/Ce) che ha imposto agli Stati Membri di approntare sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive in relazione a condotte, offensive per l'ambiente, imputabili a persone fisiche o giuridiche, idonee a provocare danni alla salute delle persone ovvero un significativo deterioramento della qualità dell'aria, del suolo, delle acque o della fauna o della flora. Con riguardo a tali ipotesi si richiedeva agli Stati Membri di prevedere anche la responsabilità delle persone giuridiche, quando gli illeciti vengono commessi con

dolo o grave negligenza7 .

Proprio quest'ultimo profilo è oggetto della presente circolare, volta ad analizzare in che modo si è data attuazione a queste direttive e quale sia l'impatto di quest'ulteriore estensione della responsabilità da reato degli enti sull'organizzazione delle società interessate.

 

2. Ambito di operatività dell'articolo 25-undecies del Dlgs 231/2001

In attuazione della direttiva8 , il Dlgs 121/2011 ha introdotto nel Codice penale una norma relativa all'uccisione, distruzione, cattura, prelievo e detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette (articolo 727-bis); e un'altra norma che punisce la distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto (articolo 733 bis). È stato poi aggiunto l'articolo 25-undecies ai reati previsti dal Dlgs 231/2001 che, oltre ai due nuovi reati del Codice penale sopra menzionati, ha incluso altre figure di reato già disciplinate come illeciti nel Testo Unico dell'ambiente e nelle altre leggi speciali9 .

Le condotte considerate dall'articolo 25-undecies dal Dlgs 231/2001, sono quelle poste in essere da chiunque:

— effettui lo scarico di acque reflue industriali contenenti le sostanze pericolose (articolo 137 Dlgs 152/2006);

— raccolga, trasporti, recuperi, smaltisca, commerci ed faccia intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione (articolo 256, comma 1);

— realizzi o gestisca una discarica non autorizzata (articolo 256, comma 3);

-non osservi le prescrizioni contenute nell'autorizzazione alla gestione di una discarica o alle altre attività concernenti rifiuti (articolo 256, comma 4);

— misceli in modo non consentito i rifiuti (articolo 256, comma 5)

— depositi temporaneamente presso il luogo di produzione rifiuti pericolosi sanitari (articolo 256, comma 6);

— predisponga un certificato di analisi dei rifiuti contenente indicazioni false sulla natura, composizione e caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti nonché, chi faccia uso di un certificato falso durante il trasporto (articolo 258, comma 4);

— effettui una spedizione di rifiuti costituente traffico illecito (articolo 259 comma 1);

— al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti (articolo 260 commi 1 e 2);

— nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti, utilizzato nell'ambito del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri) fornisce false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti e inserisce un certificato falso nei dati da fornire ai fini della tracciabilità dei rifiuti (articolo 260 bis comma 6)10 ;

— durante il trasporto fa uso di un certificato di analisi di rifiuti contenente false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti trasportati (articolo 260 bis comma 7) o dal trasportatore che accompagna il trasporto di rifiuti con una copia cartacea della scheda Sistri Area movimentazione fraudolentemente alterata (articolo 260-bis comma 8);

— inquini il suolo, il sottosuolo, le acque superficiali o sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio, se l'autore del reato non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti. Si applica una maggiore sanzione in caso diinquinamento determinato da sostanze pericolose(articolo 257);

— determini il superamento dei valori limite di emissione determinando anche il superamento dei valori limite di qualità dell'aria previsti dalla vigente normativa (articolo 279 comma 5).

— in violazione di quanto previsto dal decreto del Ministro del commercio con l'estero del 31 dicembre 1983, importa, esporta o riesporta, sotto qualsiasi regime doganale, vende, espone per la vendita, detiene per la vendita, offre in vendita, trasporta, anche per conto terzi, o comunque detiene esemplari di specie protetta (articolo 1 e 2 legge 150/1992);

— detenga esemplari vivi di mammiferi e rettili di specie selvatica ed esemplari vivi di mammiferi e rettili provenienti da riproduzioni in cattività che costituiscano pericolo per la salute e per l'incolumità pubblica (articolo 3, legge 150/1992).

Ci sono poi gli illeciti relativi alla tutela dell'ozono, per cui:

— è punito chiunque violi le disposizioni che impongono la cessazione delle attività di produzione, esportazione, importazione, detenzione, commercializzazione, riciclo e raccolta delle sostanze lesive dell'ozono stratosferico e dannose per l'ambiente, indicate nelle tabelle allegate alla legge (articolo 3 legge 28 dicembre 1993, n. 549).

Infine sono contemplate le condotte di:

— inquinamento doloso o colposo del mare, in cui si punisce lo sversamento doloso o colposo in mare da navi di sostanze inquinanti (articolo 8 e 9 Dlgs 202/2007)11 .

A queste condotte si aggiungono quelle relative all'uccisione, distruzione, cattura, prelievo e detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette (articolo 727-bis); e alla distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto (articolo 733-bis).

Le ipotesi di reato richiamate sono rilevanti per affermare la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, ogni volta che il reato sia stato commesso da un apicale dell'impresa o da un soggetto a questi sottoposto, nell'interesse o a vantaggio dell'ente.

Va peraltro precisato che la scelta operata dal Dlgs 121/2011 è stata nel senso di attribuire rilevanza solo ad alcuni reati ambientali contemplati nel Testo unico ai fini della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Su questo profilo si appuntano molte critiche. Non appare chiaro il criterio seguito nella selezione operata dal Legislatore interno che, da un lato, attribuisce rilievo a condotte solo formali, mentre, dall'altro lato, esclude fattispecie connesse a un possibile disastro ambientale riconducibili agli articolo 434 (crollo di costruzioni e altri disastri dolosi) e 449 C.p. (delitti colposi di danno)12 .

Neppure sono comprese fattispecie criminose quali: l'abbandono e il deposito incontrollato di rifiuti (articolo 256, comma 2, del Dlgs 152/2006)13 , le violazioni inerenti ai criteri di accettabilità dei rifiuti in discarica (articolo 16 del Dlgs 36/2003), alla condizione di impianti di incenerimento di rifiuti (articolo 19 del Dlgs 133/2005), ad attività di gestione di rifiuti regolamentate da altre discipline di settore.

Scelta minimalista sotto certi profili, ma estensiva, probabilmente anche in modo eccessivo, sotto altri, poiché la Legge Delega, in aderenza alle Direttive comunitarie che ha inteso recepire, aveva selezionato come rilevanti per la responsabilità delle persone giuridiche reati correlati ad effettive situazioni di danno o di pericolo.

 

3. Il sistema sanzionatorio. Criminalità d'impresa e impresa criminale

Per quanto riguarda il sistema sanzionatorio (vedi tabella allegata), a carico degli enti sono previste sanzioni di carattere pecuniario, interdittive, di confisca e di pubblicazione della sentenza.

Le sanzioni pecuniarie si applicano secondo il meccanismo delle quote e vanno da un minimo di 150 a un massimo di 800 quote, applicabile ai casi ritenuti di maggior allarme sociale quale attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti ad alta radioattività, (articolo 260 comma 2 Dlgs 152/2006). Il valore di ogni singola quota va da un minimo di 250 ad un massimo di 1.500 €.

Le sanzioni interdittive previste (articolo 9, comma 2, Dlgs 231/2001), per una durata non superiore a sei mesi, sono invece previste per gli illeciti più gravi, quali lo scarico di acque reflue industriali contenenti sostanze pericolose e in violazione dei limiti tabellari (articolo 137 comma 2 e 5 del Testo Unico dell'ambiente); la gestione di una discarica non autorizzata (articolo 256 comma 3) e le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (articolo 260).

La sanzione dell'interdizione definitiva dell'attività, disciplinata dall'articolo 16 del Dlgs 231/2001, è comminata se l'ente o una sua unità organizzativa vengono stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati ad opera di chi, all'interno dell'impresa, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti (articolo 260 Dlgs 152/2006).

La misura dell'interdizione si giustifica in relazione all'ipotesi di reato considerata, in quanto è lo stesso oggetto sociale dell'impresa ad essere illecito. Il verificarsi del reato non è dunque tanto un problema di "colpa da organizzazione" quanto di condotta posta in essere dall'imprenditore diretta a commettere un'attività illecita.

Vale dunque la pena di distinguere la "criminalità di impresa" dall'"impresa criminale".

La varietà dei reati presupposto in materia ambientale, che estendono ulteriormente l'ambito di applicazione del Dlgs 231/2001, induce cioè a distinguere le ipotesi in cui l'evento dannoso o pericoloso può essere il risultato di un comportamento frutto di un'occasionale negligenza oppure di un'intenzionale condotta da parte di un'impresa che, nell'esercizio della sua attività, sia consapevole di incorrere in un reato ambientale. Si pensi, ad esempio, alla società che tratti sostanze ozono-lesive e che abbia fughe negli impianti non sottoposti a periodici controlli, oppure all'ipotesi in cui una nave dolosamente inquini il mare per liberarsi di un carico che sarebbe smaltibile legittimamente solo a caro prezzo; all'impresa che svolge sistematicamente un'attività che integra un reato ambientale, come nel caso di chi realizzi o gestisca una discarica non autorizzata, oppure all'impresa che, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti.

Il meccanismo premiale che è alla base della disciplina introdotta con il Dlgs 231/2001, e che può portare all'esonero della responsabilità dell'ente, è fondato sull'idea che la società deve cercare di prevenire la commissione di reati, commessi da apicali o soggetti sottoposti all'altrui direzione, nell'interesse o a vantaggio dell'impresa, attraverso la predisposizione di adeguati modelli organizzativi. Sull'osservanza di questi è chiamato poi a vigilare l'Organismo di Vigilanza. L'ente andrà esente da responsabilità se dimostra, nel caso di reati commessi da soggetti in posizione apicale, di aver in tal senso: adeguatamente organizzato l'impresa e vigilato sull'attuazione dei modelli di organizzazione. Inoltre, è esonerato l'ente se dimostra l'elusione fraudolenta del modello organizzativi.

La disciplina introdotta con il Dlgs 231/2001 è stata dunque originariamente creata con l'obiettivo primario di contrastare la criminalità d'impresa, prevenendo la commissione dei reati piuttosto che sanzionando l'impresa, in quanto un'adeguata organizzazione interna non appare sufficiente a impedire l'attività dell'impresa criminale. Appare difficile infatti che un modello organizzativo, per quanto ben strutturato, possa essere efficace se è l'attività nel suo complesso ad essere illegale: se l'ente ha, per esempio, come unico scopo il traffico illecito di rifiuti, tutta la catena produttiva sarà coinvolta sistematicamente nella violazione della legge. In questi casi l'unica misura efficace può essere l'interdizione definitiva dell'attività.

Tuttavia, la constatazione della progressiva estensione del Dlgs 231/2001 anche a tipi di reati caratteristici dell'impresa criminale, dimostra che la finalità attuale del decreto è ormai tanto preventiva quanto punitiva.

 

4. Dalle direttive comunitarie in materia ambientale al Decreto legislativo 121/2011: peculiarità della disciplina italiana

L'elenco delle condotte illecite rilevanti coincide sostanzialmente con quello contenuto nelle direttive citate, ma il risultato interpretativo che ne deriva è fondamentalmente diverso e merita attenzione.

Il confronto tra normativa comunitaria e Dlgs 121/2011 rivela infatti che le condotte contemplate dalla Direttive riguardavano reati di evento, ad eccezione della "spedizione illecita di rifiuti" (articolo 3 lettera C) direttiva 2008/99).

In primo luogo, la direttiva 2008/99 e la Direttiva 2009/123 subordinano l'applicazione della sanzione penale all'ipotesi in cui dalla commissione dell'illecito derivi un danno o un pericolo per l'ambiente e per la salute dell'uomo. Si richiede dunque, ai fini della condanna, che venga dimostrata la relazione tra la condotta posta in essere e il pregiudizio sofferto dall'ambiente e/o dalle persone. Nel nostro sistema, invece, le condotte che integrano i reati ambientali rilevano anche come violazioni formali, a prescindere dal verificarsi di un evento dannoso o pericoloso. Inoltre, la maggior parte dei reati contemplati hanno natura contravvenzionale.

Si contrappone cioè un modello di reati "di evento" (voluto dalla direttiva) a un modello di reati di "pericolo presunto" (attuato dalla legge italiana). La differenza tra l'una e l'altra ipotesi è rilevante sul piano delle conseguenze, dal momento che nel nostro sistema si è adottata una tecnica di tutela anticipata che punisce la condotta in quanto astrattamente pericolosa, prescindendo dall'offesa ad un concreto bene giuridico.

In secondo luogo, la direttiva 2008/99, richiede che il reato sia posto in essere con dolo o grave negligenza, mentre il Dlgs 121/2011 non precisa nulla sul profilo psicologico della condotta con l'effetto che, nel nostro sistema, nella parte in cui si prevede che i reati di cui si discute siano delle contravvenzioni (e non dei delitti) ad integrare il reato è sufficiente anche la colpa semplice, da intendersi come negligenza, imprudenza e imperizia nello svolgimento dell'attività non connotata da alcun grado di gravità. Si afferma in dottrina che: "Data tale struttura, che non sempre li rende gravemente offensivi, i reati sono previsti in forma di contravvenzione, quindi imputabili indifferentemente a titolo di dolo e di colpa, e sono sanzionati con pene blande, di scarsa effettività, potendo godere, nella maggior parte dei casi, del beneficio dell'oblazione e, sempre, della sospensione condizionale"14 .

Dal punto di vista soggettivo, dunque, i reati ambientali rilevanti ai fini del Dlgs 231/2001 finiscono per essere imputabili all'ente talvolta a titolo di colpa; talvolta a titolo di dolo e talvolta, come si diceva, indifferentemente a titolo di dolo e di colpa.

Si sottolinea, inoltre, che il diritto penale dell'ambiente non è stato munito di quelle sanzioni "proporzionate, efficaci e dissuasive volute dalla direttiva" né per quanto riguarda le condotte poste in essere da persone fisiche autori del reato né per le persone giuridiche chiamate a rispondere a titolo di responsabilità amministrativa. Da un lato, infatti, "si realizza, anche nei confronti degli enti, una forte anticipazione della tutela penale, estesa a comportamenti prodromici rispetto alla realizzazione di tali fatti dannosi, in quanto tali, sforniti di per sé di una diretta lesività per i beni giuridici tutelati, con un effetto moltiplicatore delle sanzioni a carico delle imprese palesemente sproporzionato"15 ; dall'altro lato, il sistema sanzionatorio delineato dall'articolo 25-undecies rivela come, in relazione ad alcune ipotesi, le sanzioni siano previste nella medesima misura per reati di gravità notevolmente diversa, con difetto di proporzione.

Nel complesso, il quadro normativo appare disallineato rispetto alle Direttive: alcune condotte possono essere sanzionate anche se in concreto possono rivelarsi inoffensive per l'ambiente e per la salute, (come nelle ipotesi in cui difetti l'autorizzazione in caso di raccolta, trasporto, smaltimento dei rifiuti, ecc..); altre condotte sono sanzionate anche se il pericolo per l'ambiente c'è, ma non è grave (ad es., superamento minimo dei valori di qualità dell'aria); altre ancora sono sanzionate anche se preposte più a tutelare la pubblica fede che l'ambiente16 .

Inoltre, la maggior parte delle norme che prevedono reati ambientali sono costruite con una tecnica di rinvio ad atti amministrativi, esterni al precetto penale, che per loro natura non sono sempre puntuali nella formulazione come, invece, è richiesto alle norme penali in virtù del principio di tassatività e tipicità. Ne consegue che le condotte illecite non sono descritte puntualmente e devono essere costruite, di volta in volta, mediante integrazione di precetti extrapenali.

Questo problema è tuttavia ormai conosciuto nel diritto penale dell'economia, che sempre più frequentemente utilizza la tecnica del rinvio a provvedimenti amministrativi per riempire di contenuto la norma penale. Il costo di questa tecnica di legificazione è quello di rendere meno incisivo il divieto stesso e più difficile la conoscenza del divieto penale.

Nella prospettiva della costruzione di modelli organizzativi adeguati a prevenire gli illeciti ambientali, questa difficoltà si traduce in un ulteriore sforzo da parte dell'impresa nell'individuazione concreta delle condotte vietate e, in conseguenza di ciò, nell'attività di monitoraggio delle aree di rischio.

L'estrema eterogeneità dei reati presupposto rappresenta inoltre, in concreto, la maggiore difficoltà che si pone all'impresa che intenda adeguarsi all'articolo 25-undecies del Dlgs 231/2001. Può perciò essere utile razionalizzare le diverse tipologie di illecito sistematizzando la materia per attività e considerando che, sotto il profilo quantitativo, i reati più frequentemente contestati alle imprese sono quelli relativi ai rifiuti.

 

5. Sistemi di gestione ambientale e modelli di organizzazione ex Dlgs 231/2001

Fino ad oggi, l'attenzione da parte delle imprese all'ambiente è rientrata tra gli obiettivi di Responsabilità sociale dell'impresa (Corporate Social Responsability)17 . Con questa espressione si fa riferimento, stando alla definizione inizialmente data dalla Commissione europea, all'"integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo "di più" nel capitale umano, nell'ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate".

Si tratta comunque di Soft Law, nel senso che è una scelta dell'impresa quella di adeguarsi alla best practice di settore quando essa viene tradotta in norme, seppure non vincolanti in quanto non emanate dal legislatore. Nel carattere non vincolante della disciplina si coglie un tratto comune con il Dlgs 231/2001 che prevede la possibilità di essere esonerati dalla responsabilità amministrativa per gli enti che abbiano osservato le prescrizioni in esso contenute, ma non prevede alcuna sanzione per il fatto di non adeguarsi18 .

Le imprese, specie di grandi dimensioni, partecipano alla Responsabilità sociale di impresa mediante l'adozione di bilanci, rapporti sociali, ambientali, di sostenibilità.

Assumono rilievo anche la creazione di sistemi di gestione socialmente responsabili per i quali si prevede il meccanismo delle certificazioni rilasciate da Enti terzi indipendenti.

Il ricorso alle "certificazioni" si sostanzia nell'attribuzione a tali Enti (organismi di certificazione) del compito di verificare il rispetto delle "norme tecniche" di settore da parte delle imprese che si sottopongono (su base volontaria) a queste verifiche19 . Una volta certificata la qualità del sistema di gestione ambientale da parte di questi enti si rafforza la fiducia degli stakeholders dell'impresa, con conseguente miglioramento dell'immagine di essa.

La normativa tecnica che occorre prendere in considerazione è duplice, dovendosi fare riferimento quantomeno allo Standard Iso 14001 elaborata dalla International Standardization Organization e al regolamento europeo Emas che istituisce un sistema comunitario di ecogestione e audit al quale possono aderire volontariamente le organizzazioni per valutare e migliorare le proprie prestazioni ambientali. Il miglioramento riguarda il profilo della sostenibilità degli impatti ambientali della attività dell'impresa, secondo il costante adeguamento alle più avanzate tecniche disponibili.

Va peraltro ricordato che mentre la certificazione Iso 14001 è rilasciata da un organismo privato, l'organismo che rilascia la certificazione Emas ha natura pubblica e di conseguenza offre maggiori garanzie di imparzialità.

Sia nello standard Iso 14001 sia in Emas si stabiliscono i requisiti per elaborare un Sistema di gestione ambientale (Sga)20 che è quella parte del sistema di gestione di un'organizzazione utilizzata per sviluppare e attuare la propria politica ambientale, standardizzando le attività gestionali21 . L'obiettivo dei Sistemi di gestione ambientale è quello di identificare i principali aspetti ambientali dell'azienda, di tenerli sotto controllo, di coordinare tutte le attività con impatto ambientale e distribuire responsabilità specifiche per la loro realizzazione. In questo modo le aziende sono singolarmente responsabilizzate e portate ad adottare un approccio preventivo nella tutela ambientale. Attraverso l'implementazione di un Sga è peraltro possibile monitorare costantemente il rispetto della normativa in materia ambientale.

Per costruire un Sga l'impresa deve dunque osservare alcune procedure che prevedono passaggi obbligati. Innanzitutto deve: predisporre un documento di politica ambientale (per certi versi assimilabile al codice etico); prevedere l'attività di pianificazione con identificazione dei più significativi aspetti ambientali dell'organizzazione, al fine di valutare quali tra i propri aspetti ambientali può determinare impatti ambientali rilevanti (il criterio di identificazione e valutazione deve essere definito sulla base di elementi oggettivi). Occorre cioè svolgere un'analisi sulle attività aziendali dirette ed indirette che mostrino possibili interazioni con l'ambiente.

A questa fase segue quella fondamentale di ricognizione degli obblighi giuridici che incombono sull'impresa previsti per legge o assunti con l'autoregolamentazione. Completata l'analisi, l'impresa deve stabilire gli obiettivi che intende raggiungere e la tempistica, i responsabili del sistema di gestione ambientale, i processi di formazione del personale e le procedure di gestione ambientale che intende attuare.

L'ultima fase è rivolta alla creazione dei meccanismi per il monitoraggio delle attività, per tenere sotto controllo il mantenimento e l'efficacia del Sga22 .

Inquadrate le fasi più rilevanti dell'attività di progettazione ed attuazione di un sistema di gestione ambientale, va precisato che nella prospettiva di conformità ai requisiti del Modello organizzativo 231, vi sono alcune attività integrative che è comunque necessario realizzare per potenziare il sistema. Si tratta in particolare di: integrare l'analisi ambientale iniziale con una specifica identificazione degli ambiti aziendali di interesse rispetto ai reati ambientali; valorizzare le sinergie tra Politica ambientale e Codice etico; curare ed evidenziare maggiormente, nell'ambito dell'assetto organizzativo e delle responsabilità, la separazione tra compiti e funzioni per le attività a rischio, evitando l'eccessiva sovrapposizione su singole figure; arricchire le procedure e gli strumenti di gestione ambientale, di controllo e monitoraggio, con misure dedicate specificatamente alla prevenzione dei reati; istituire l'OdV e definirne chiaramente i compiti, soprattutto in rapporto alle attività dei certificatori/verificatori e degli auditor interni.

A quest'ultimo riguardo, se la società decidesse di attribuire i compiti dell'OdV al collegio sindacale, esercitando la facoltà concessa dall'articolo 14, comma 12, lrgge 183/2011, è possibile per l'organo di controllo avvalersi di consulenti esperti in materia ambientale23 .

Inquadrate le specificità dei sistemi di gestione ambientale, uno degli aspetti più importanti da chiarire è quello relativo al rapporto che si pone tra questi e il modello di organizzazione e gestione finalizzato alla prevenzione dei reati, secondo quanto stabilito dal'articolo 6 del Dlgs 231/2001.

La giurisprudenza – sebbene chiamata a pronunciarsi in relazione all'idoneità dei modelli organizzativi in materia di sicurezza sul lavoro e a tracciare la distinzione tra questi e i documenti di valutazione del rischio – ha chiarito, con un ragionamento di carattere generale che può essere esteso anche ai reati ambientali, che un modello di organizzazione è ispirato a diverse finalità che debbono essere perseguite congiuntamente: quella organizzativa, orientata alla mappatura e alla gestione del rischio specifico nella prevenzione del reato che si vuole evitare; quella di controllo sul sistema operativo, onde garantirne la continua verifica e l'effettività. Esso è inoltre caratterizzato dal sistema di vigilanza che, pure attraverso obblighi diretti a incanalare le informazioni verso la struttura deputata al controllo sul funzionamento e sull'osservanza, culmina nella previsione di sanzioni per le inottemperanze e nell'affidamento di poteri disciplinari al medesimo organismo dotato di piena autonomia.

Il modello organizzativo è infatti sempre funzionale al raggiungimento dell'obiettivo di prevenire la commissione di reati e dunque normalmente impone all'impresa che voglia rispettare il Dlgs 231/2001 adempimenti specifici. In particolare, esso "non potrebbe limitarsi a favorire la riduzione dei potenziali rischi per l'ambiente di un determinato processo produttivo, in termini di "efficienza" e "sostenibilità", ma dovrebbe costituire un "modello di diligenza" vincolante ed autosufficiente sotto il profilo della effettività, per i soggetti in posizione apicale e i dipendenti, eludibile solo in modo fraudolento"24 .

 

6. I limiti del Dlgs 121/2011 nel confronto con il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro

Come si è visto, il Sga dedica grande attenzione all'analisi della normativa ambientale e a predisporre le cautele necessarie a garantirne l'osservanza.

Ci si può perciò chiedere se l'impresa che adotti un efficace Sga sia tenuta anche a predisporre un separato modello di organizzazione e controllo 231 oppure se questo possa essere contenuto all'interno del Sga.

La soluzione nell'uno o nell'altro senso non è priva di conseguenze. Qualora, ad esempio, si ritenga possibile implementare il Sga con il modello organizzativo 231 e si sottoponga poi il Sga alla procedura di "certificazione", una questione che pone è se operi una "presunzione di conformità" anche del modello organizzativo. La risposta sembra dover essere negativa, considerando che l'obiettivo dell'impresa nel sottoporre a certificazione il Sga è quello di garantire la fisiologia, gestendo al meglio gli aspetti ambientali e non quello di prevenire eventuali patologie legate a comportamenti criminosi, dolosi o colposi. Tuttavia entrambi i sistemi sono orientati alla prevenzione e ciò apre la via alla possibilità di valutare le integrazioni tra i due25 .

Il dialogo tra standard internazionali e modelli organizzativi è peraltro già stato sperimentato con successo nella materia della sicurezza sul lavoro quando l'articolo 25-septies ha esteso l'ambito di applicazione del Dlgs. 231/2001 ai reati di omicidio e lesioni colpose sul lavoro26 .

L'articolo 30 del Tus (Dlgs 81/2008) precisa, infatti, che il modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente deve essere adottato e attuato assicurando un sistema aziendale per l'adempimento di tutti gli obblighi giuridici27 . In questo modo la normativa sulla sicurezza sul lavoro dimostra di essere attenta all'interazione efficiente tra regole di organizzazione di impresa e obblighi normativi.

Tuttavia, mentre l'articolo 30 del Tus, individua un contenuto minimo dei modelli organizzativi ritenuti idonei a prevenire i reati rilevanti, e stabilisce una presunzione di conformità legale per "i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida Uni-Inail per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro

(Sgls) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007", il Dlgs 121/2011, nell'estendere la responsabilità amministrativa agli enti per i reati ambientali, non fa invece riferimento alcuno alle certificazioni volontarie ambientali (Iso 14001-Emas).

Manca, dunque, nel Dlgs 121/2011 una norma analoga all'articolo 30 del Dlgs n. 81/2008, la quale indichi, almeno per la prima fase di applicazione della legge, le linee guida cui uniformare i modelli di organizzazione aziendale ai fini della loro presunta idoneità a prevenire reati ambientali.

I reati ambientali considerati dall'articolo 25-undecies possono riguardare, come si è detto, anche le piccole imprese. A questo riguardo, ancora una volta, il decreto correttivo al Tusl, (Dlgs 106/2009) si è mostrato più sensibile alle realtà aziendali del Dlgs 121/2011, dal momento che aveva inserito nell'articolo 30 un'ulteriore disposizione secondo la quale: "La commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro elabora procedure semplificate per l'adozione e l'efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione della sicurezza nelle piccole e medie imprese. Tali procedure sono recepite con decreto del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali".

Queste lacune riscontrabili nel Dlgs 121/2011 sono particolarmente criticabili in relazione alla gestione della fase transitoria, dal momento che non si consente alle imprese che abbiano dimostrato consapevolezza e attenzione alla normativa ambientale di potersi avvalere in campo ambientale della stessa presunzione che è prevista per la materia della sicurezza sul lavoro28 .

Ciò nonostante, è ragionevole ritenere che i giudici investiti della questione possano fare riferimento, almeno in prima battuta, ai sistemi di certificazione ambientale, opportunamente integrati, purché adeguati a prevenire i rischi da reato ambientale29 . In questa prospettiva, nell'elaborare il modello organizzativo all'interno di un Sga, già da subito, occorre perciò quantomeno introdurre specifiche previsioni sulla gestione delle risorse e pianificazione finanziaria; istituire un organismo di vigilanza; predisporre flussi informativi adeguati; conferire in modo corretto le deleghe di funzioni in campo ambientale; elaborare un efficace sistema sanzionatorio.

Nel confronto con il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro, il Dlgs 121/2011 rivela anche un altro profilo critico. Mentre infatti l'articolo 16 del Tus specifica che in caso di deleghe di funzioni, il datore di lavoro risponde di omessa vigilanza sull'organizzazione, a meno che non abbia adottato un modello di organizzazione e controllo in linea con quanto previsto dall'articolo 30, comma 4; né il Dlgs 121/2011 né il Dlgs 152/2006 trattano il tema delle deleghe di funzioni nonostante il fatto che ad esse ricorre frequentemente l'imprenditore nelle realtà aziendali a struttura complessa.

L'imprenditore che operi in campo ambientale non può perciò avvalersi, se adotta il meccanismo della delega di funzioni, di alcuna presunzione favorevole in relazione alla culpa in vigilando, anche se dimostra di avere predisposto e attuato un modello organizzativo30 .

Si possono però ritenere applicabili i criteri elaborati in generale dalla giurisprudenza in tema di delega di funzioni31 . La colpa da organizzazione andrà verificata sulla base dell'articolo 6, Dlgs. 231/2001 e potrà fondarsi anche sulla non idoneità della delega, trattandosi di un'ipotesi tipica di carenza organizzativa. In questo caso anche il delegante è considerato autore o co-autore del reato presupposto. Quando, invece, la delega è idonea e utilmente conferita, il reato è commesso dal delegato e l'accertamento della colpa da organizzazione va fatta dimostrando, ai sensi dell'articolo 7 del Dlgs 231/2001, che il reato è stato reso possibile per l'inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza32 .

Nel complesso, la normativa sulla sicurezza sul lavoro, sebbene precedente a quella in esame, mostra una maggiore maturità e può pertanto essere guardata dall'interprete per risolvere alcune questioni interpretative che si possono porre in materia di responsabilità di impresa e reati ambientali. Entrambe le discipline peraltro sono state introdotte soprattutto per estendere la responsabilità amministrativa degli enti ad alcuni tra i più gravi reati colposi e, in questo senso, esse condividono una ratio comune.

 

7. Specificità dei modelli organizzativi e spunti giurisprudenziali

I reati ambientali presi in considerazione dall'articolo 25-undecies possono riguardare trasversalmente sia la piccola sia la media e grande impresa.

Le imprese che vogliano adeguarsi al Dlgs 231/2001 in relazione ai reati ambientali devono fare sì che il modello organizzativo sia il risultato di un'attenta analisi dei rischi di reato in relazione alla specifica attività svolta dalla società, alle sue dimensioni e alla sua struttura organizzativa. La fase di individuazione dei rischi si completa con l'identificazione delle possibili modalità di realizzazione dei reati nelle diverse aree aziendali.

Come è già accaduto con l'apertura del Dlgs 231/2001 ai reati legati alla sicurezza sul lavoro, la difficoltà principale è quella di predisporre procedure interne idonee a prevenire i reati "colposi" che possano derivare dall''attività ordinaria.

In primo luogo perché nei reati colposi la rilevanza del fattore umano fisiologico (l'errore) amplia moltissimo le ipotesi di condotta che possono determinare l'evento di reato, rispetto al fattore umano patologico (il dolo criminale). Il fatto, inoltre, che molti reati ambientali, specie quando si tratti di superamento di soglie o di limiti di tolleranza , possano essere commessi nell'ambito della gestione ordinaria dell'attività, rende ulteriormente complessa la mappatura dei rischi e, di conseguenza, la costruzione dei modelli organizzativi.

In secondo luogo, perché in materia ambientale occorre considerare che il reato può essere realizzato dai soggetti apicali o da altri soggetti operanti con e per l'impresa (es. i fornitori) qualora pongano in essere una condotta "nell'interesse" o "a vantaggio" dell'ente. Quest'ultimo aspetto, relativo all'ipotesi in cui il reato sia commesso da un soggetto di cui l'impresa si avvalga per svolgere una parte dell'attività, mostra come il risk assessment debba essere effettuato considerando non solo i dipendenti e gli apicali ma anche tutti coloro che agiscono per conto dell'impresa.

Si pensi all'impresa che si avvalga di una società di trasporti per trasferire i rifiuti da essa prodotti ad un impianto di smaltimento: come per i consulenti, anche in queste ipotesi non si esclude l'estensione della responsabilità alla società nel cui interesse e/o vantaggio sia stato commesso il reato. Pertanto il modello organizzativo deve essere costruito in modo da prevenire anche le condotte criminose di questi soggetti. A questo riguardo è stato osservato che: «Nel processo di individuazione dei rischi di reati ambientali, occorre, in primo luogo, identificare gli ambiti aziendali di attività potenzialmente coinvolti. Un processo produttivo che comporta emissioni in aria o in acqua o la produzione di rifiuti in un ben determinato sito rappresenta una ovvia area di rischio, che potrà coinvolgere non solo funzioni aziendali dedicate alla gestione del processo stesso, ma anche funzioni accessorie che possono influenzarle, quali ad esempio la gestione del personale o gli acquisti. In un contesto del genere possono assumere rilievo anche attività gestite da terzi all'interno dell'azienda a vario titolo. Altre tipologie di impresa possono, invece, presentare rischi ambientali delocalizzati, ad esempio in cantieri temporanei o in fase di trasporto di determinati materiali o prodotti.

Non da ultimo dovrebbero essere considerati i rischi connessi ai prodotti o ai servizi forniti dall'impresa, in relazione ai loro potenziali impatti ambientali"33 .

L'esame della giurisprudenza che si è formata sugli illeciti ambientali fino ad oggi, – sebbene sia relativa alla responsabilità del singolo autore del reato e non dell'impresa – può essere utile per individuare quali siano state fino ad oggi le più frequenti condotte passibili di condanna, così che si possa avere una precisa individuazione dei rischi al fine di predisporre idonee misure di prevenzione e controllo.

La casistica più numerosa è in materia di gestione dei rifiuti. Va al riguardo considerato che la nozione di "rifiuto" – che costituisce il presupposto per l'applicazione della normativa – è però da sempre oggetto di discussione.

L'articolo 153 lettera a) del Dlgs 152/2006 nella versione più aggiornata definisce il rifiuto come "qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi". Come ha evidenziato la Corte di Giustizia, la qualifica di "rifiuto" dipende dal significato del termine "disfarsi", che però a sua volta non è definito.

Uno dei nodi principali della questione attiene alla destinazione dei residui di un ciclo produttivo: se vadano cioè sottratti al regime dei rifiuti quei residui destinati ad essere utilizzati in un diverso ciclo produttivo. Secondo la Corte di Giustizia, la nozione di rifiuto comprende anche le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzo economico e gli oggetti e le sostanze di cui un proprietario si disfa, anche se hanno valore commerciale e sono raccolte a titolo commerciale a fini di riciclo, recupero e riutilizzo34 .

Rileva poi, ai fini dell'applicazione dell'articolo 25-undecies del Dlgs 231/2001 e quindi della disciplina della responsabilità delle società, la classificazione dei rifiuti operata dall'articolo 184 del Dlgs 152/2006. La norma distingue tra rifiuti urbani e rifiuti speciali. Questi ultimi, in particolare, si caratterizzano per le attività che li producono. Si tratta di attività produttive (rifiuti da attività agricole e agro-industriali, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 2135 C.c.; i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti che derivano dalle attività di scavo, fermo restando quanto disposto dall'articolo 184-bis ; i rifiuti da lavorazioni industriali; i rifiuti da lavorazioni artigianali; i rifiuti da attività commerciali; i rifiuti da attività di servizio; i rifiuti derivanti dalla attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acquee dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi; i rifiuti derivanti da attività sanitarie), e quindi rilevanti ai fini della responsabilità amministrativa delle imprese che le effettuano. L'articolo 184 citato distingue poi tra rifiuti non pericolosi e pericolosi. Si tratta di una distinzione che, per effetto del rinvio operato dall'articolo 25-undiecies alle fattispecie del Dlgs 152/2006, incide direttamente sul regime sanzionatorio delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni.

A titolo esemplificativo prendiamo l'attività organizzata per il traffico illecito dei rifiuti, che rappresenta un reato particolarmente grave sia per l'allarme sociale che desta sia perché presuppone la necessaria esistenza di una struttura organizzata. La giurisprudenza individua due ulteriori elementi di grande importanza: la previsione di "dolo specifico" perché si configuri, appunto, il reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti e la configurabilità della riduzione dei costi aziendali come "ingiusto profitto". Il carattere abusivo dell'attività, che è presupposto necessario ad integrare il reato di cui all'articolo 260 Dlgs 152/2006, ricorre sia quando manchi totalmente l'autorizzazione ad esercitare l'attività, sia quando il provvedimento autorizzativo sia scaduto, illegittimo o non corrispondente al tipo di rifiuto trattato35 .

In alcune pronunce della Cassazione penale si afferma il principio dell'istantaneità del reato di trasporto di rifiuti senza autorizzazione (articolo 256, primo comma). Si ritiene, cioè, che basti la singola condotta delittuosa perché si configuri il reato, che si perfeziona quindi nel momento e nel luogo in cui essa si compie36 . In questo aspetto viene colta la differenza rispetto all'articolo 260 (e cioè il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti) che sanziona la continuità dell'attività illecita37 .

In un caso specifico si è stabilito che il trasporto di rifiuti propri non pericolosi effettuato tramite mezzi propri non autorizzati integra il reato di cui all'articolo 256 comma 1 Dlgs 152/2006, (e cioè attività di gestione di rifiuti non autorizzata) anche se avvenuto in "via eccezionale" o ne sia stata provata la "assoluta episodicità". Pertanto, le società per non incorrere in responsabilità avrebbero dovuto avvalersi di imprese esercenti servizi di trasporto di rifiuti regolarmente autorizzate e iscritte all'apposito albo.

In generale, la giurisprudenza è univoca nel sostenere che il produttore/detentore di rifiuti di speciali non pericolosi, qualora non provveda all'autosmaltimento o al conferimento dei rifiuti a soggetti che gestiscono il pubblico servizio, ha il dovere di accertarsi che coloro ai quali conferisce il rifiuto per il suo smaltimento definitivo siano forniti, ognuno per le attività di pertinenza (trasporto, stoccaggio provvisorio, smaltimento definitivo) delle necessarie autorizzazioni e che l'omesso controllo sulla sussistenza di tale requisito comporti una responsabilità penale quantomeno a titolo di colpa38 (in questa ottica solo con il ritorno della quarta copia del formulario di accompagnamento dei rifiuti, risulta esclusa la responsabilità del produttore per il corretto smaltimento dei rifiuti).

Il reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzati, previsto dall'articolo 256 comma 1, è stato dunque dalla giurisprudenza ascritto al titolare dell'impresa anche sotto il profilo dell'omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta vietata39 . Infatti, come la giurisprudenza ha sottolineato "in tema di rifiuti la responsabilità per l'attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda".

Applicando i principi in materia di concorso di persone si può ritenere, dunque, che il produttore di rifiuti nel momento in cui conferisce a un soggetto non autorizzato la gestione dei rifiuti, proprio perché gravato da un obbligo di verifica della esistenza e regolarità dell'autorizzazione, risponde a titolo di concorso del reato di cui all'articolo 256.

Altro caso di condanna del singolo (su cui si potrebbe oggi prospettare la responsabilità anche dell'ente) riguarda la non corrispondenza tra l'autorizzazione e i rifiuti trattati o trasportati. Si sottolinea in giurisprudenza che trasportare o trattare rifiuti diversi da quelli per cui si è autorizzati equivale a non avere autorizzazione alcuna, pertanto passibile di condanna (articolo 256 Dlgs 152/2006).

Ulteriore caso trattato dalla giurisprudenza, in cui una società è incorsa nel reato di gestione non autorizzata di rifiuti, si è avuta quando questa, in qualità di proprietario, ha concesso in locazione a terzi un terreno per svolgervi attività di smaltimento rifiuti senza che questi fosse provvisto delle debite autorizzazioni o non rispettasse quanto prescritto nei titoli abilitativi. I giudici hanno sottolineato, infatti, che, al fine di rispettare la funzione sociale della proprietà costituzionalmente garantita, spetti al proprietario l'obbligo di verificare che il locatario abbia tutti i requisiti previsti dalla legge per svolgere l'attività di smaltimento rifiuti. Tale responsabilità del proprietario del terreno potrebbe sembrare eccessivamente gravosa, ma in realtà non lo è, secondo i giudici della Suprema Corte, perché la ragione stessa del rapporto contrattuale è nel concedere in locazione un terreno per svolgervi un'attività di smaltimento rifiuti, pertanto il proprietario dovrà verificare al momento in cui conclude il contratto che il soggetto terzo locatario sia provvisto delle autorizzazioni di legge, se vuole evitare di incorrere nel concorso del reato40 . Estendendo questo ragionamento al di là del caso peculiare, sembra potersi affermare che nel modello organizzativo, l'impresa deve considerare i rischi ambientali connessi ai contratti di appalto, locazione, ecc. che conclude nell'esercizio della sua attività.

Di particolare rilevanza, infine, è la sentenza con cui i giudici hanno decretato che ai fini della sussistenza del dolo specifico richiesto per l'integrazione del delitto di gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti ai sensi dell'articolo 260, il profitto perseguito dall'autore della condotta possa consistere anche nella semplice riduzione dei costi aziendali41 .

Quest'ultima decisione assume una certa importanza anche ai fini dalla definizione di "interesse" e "vantaggio", che costituiscono i criteri di imputazione oggettiva previsti dall'articolo 5 del Dlgs 231/2001 per estendere la responsabilità da reato all'ente.

 

8. "L'interesse" e "il vantaggio" dell'impresa

L'orientamento che si sta formando in relazione ai criteri di imputazione soggettiva dell'ente è molto interessante e diverge parzialmente dalla prevalente interpretazione della nozione di interesse o vantaggio data fino ad oggi dalla giurisprudenza. Spesso, in questa materia, l'interesse o il vantaggio dell'ente viene individuato con riferimento al risparmio dei costi di gestione42 .

La relazione ministeriale al Dlgs 231/2001 dice espressamente che la formula nell'interesse o a vantaggio dell'ente costituisce l'espressione normativa del rapporto di immedesimazione organica tra la persona fisica che agisce e l'ente e che mentre l'interesse è da interpretare in senso soggettivo verificabile ex ante, il vantaggio è da considerarsi in senso oggettivo, e quindi verificabile ex post.

Si ritiene che l'espressione "nell'interesse dell'ente" sia riconducibile a due tipi di condotta illecita43 . Il primo si ha nel caso in cui si commetta il delitto all'interno di una politica d'impresa finalizzata a trarre il massimo profitto anche con mezzi illeciti (criminalità d'impresa). Nessun dubbio, quindi, che il reato perpetrato dal singolo sia riconducibile all'ente collettivo per cui agisce, rientrando tale atto criminoso nella logica d'impresa, nel suo metodo gestionale. Anzi, in tale caso difficilmente si potrà ritenere l'ente non responsabile, anche se dimostri di aver posto in essere quanto necessario per prevenire la commissione di tale reato. A maggior ragione l'ente sarà responsabile quando sia costituito con il fine principe di svolgere attività illecite (impresa criminale), in questo caso non ci sarà una distinzione fra atti leciti e illeciti all'interno di una logica d'impresa finalizzata al maggior guadagno, bensì si avrà un fine ultimo illecito a cui tutte le condotte saranno ispirate.

Permane, tuttavia, secondo l'opinione prevalente, "l'interesse" dell'ente anche quando non vi sia una così chiara e palese unità di intenti fra soggetto agente ed ente come, per esempio, quando un amministratore corrompa con propri fondi un pubblico ufficiale al fine di vincere una gara d'appalto. In questo caso tale condotta produrrà naturalmente gli effetti positivi in capo all'impresa e l'ente non potrà "giustificarsi" adducendo l'autonomia della scelta del singolo non rientrante in quella logica d'impresa di cui sopra, poiché comunque la commissione del reato è stata possibile a causa delle lacune organizzative dell'ente stesso e quindi, questo sarà responsabile ai sensi del Dlgs 231/2001. Solo nel caso in cui si provi che il singolo abbia agito eludendo in maniera fraudolenta il modello di organizzazione correttamente posto in essere, l'ente potrà essere esente da ogni tipo di responsabilità.

Ma la dottrina si spinge ancora oltre nell'estendere la responsabilità dell'ente. L'articolo 5 comma 2 del Dlgs 231/2001 esclude, infatti, la responsabilità dell'ente solo se il singolo agisce nell'interesse esclusivo proprio o di terzi, mentre l'articolo12 prevede una pena ridotta per l'ente se il reato è stato commesso per un prevalente interesse dell'autore o di terzi e l'ente ne abbia tratto un interesse minimo o alcuno. Quindi il dato normativo conferma, con pena semmai mitigata, la responsabilità dell'ente anche in caso di interesse "misto", ciò in virtù di quel principio per cui il singolo può commettere una condotta illecita anche non finalizzata all'interesse dell'ente "grazie" all'assenza o all'inadeguatezza del modello organizzativo dell'ente stesso.

Per quanto attiene alla definizione di vantaggio, sembra esserci minore difficoltà nell'individuare quando questo si concreti a favore della società. La dottrina, infatti afferma che qualunque "utilità patrimoniale oggettivamente apprezzabile"44 riconducibile all'ente derivante da una condotta illecita posta in essere da uno dei soggetti previsti dall'articolo 5 Dlgs 231 è da considerarsi "vantaggio".

Il limite di questa interpretazione è che essa può condurre a ritenere responsabile l'ente anche quando non ci sia relazione fra il reato commesso e il gap organizzativo, che costituisce invece il vero punto nodale della disciplina 231/2001. Non si può, infatti, sanzionare l'ente solo perché sia ad esso imputabile un vantaggio economico derivante da un illecito commesso da un amministratore, è necessario infatti che ci sia una connessione specifica tra soggetto agente, condotta illecita, e organizzazione dell'ente.

Per evitare di disattendere la logica del Dlgs 231/2001 occorre perciò considerare quando un ente riceva effettivamente un vantaggio. Sicuramente non è vantaggio quando gli interessi patrimoniali dell'ente contrastano con il reato commesso dal singolo anche se eventualmente attribuiscono delle utilità economiche alla persona giuridica. Ancora, si può affermare che bisogna tener conto della situazione generale e non dei singoli effetti che la condotta illecita provoca sull'ente, potendo i singoli effetti economici positivi essere ben poca cosa a fronte di una più generale situazione negativa creata da tale condotta. Inoltre, non rientra nella definizione di vantaggio di cui all'articolo 5 Dlgs 231/2001 un beneficio economico pur frutto di un illecito rientrante tra quelli previsti da tale decreto che però prescinde dalla quella catena, già vista in precedenza, che mette in stretta connessione il soggetto agente con l'apparato organizzativo dell'ente e le sue inefficienze.

Passando dalle considerazioni di sistema all'applicazione delle nozioni di interesse e vantaggio ai reati ambientali, si può ritenere che l'interpretazione che sta prevalendo in dottrina e giurisprudenza con riguardo ai criteri di imputazione soggettiva in relazione agli illeciti ambientali è nel senso che i criteri di interesse o vantaggio debbono essere riferiti non tanto al reato, quanto alle condotte costitutive dello stesso, cioè alla violazione delle norme.

Questa interpretazione era già stata formulata con riguardo all'articolo 25-septies da parte della dottrina45 e della giurisprudenza che ha affermato che, in caso di reato connesso alla sicurezza sul lavoro, occorre "di volta in volta accertare solo se la condotta che ha determinato l'evento, la morte o le lesioni personali, sia stata o meno determinata da scelte rientranti oggettivamente nella sfera di interesse dell'ente oppure se la condotta medesima abbia comportato almeno un beneficio a quest'ultimo senza apparenti interessi esclusivi di altri"46 .

A conferma di questa lettura, in materia di reati ambientali si pone il fatto che la maggior parte di essi sono di pura condotta (e non di evento, come invece è previsto nei reati di omicidio e lesioni colpose per violazione delle norme antinfortunistiche dall'articolo 25-septies) e sono sia di carattere doloso sia colposo47 ; con la conseguenza che la nozione di interesse e vantaggio viene letta a maggior ragione in senso oggettivo, correlando questi ultimi con la condotta, a prescindere dall'intenzione, posta in essere dal soggetto qualificato che agisce per conto dell'ente.

In concreto, vale anche per i reati ambientali l'osservazione che si è fatta in dottrina con riguardo ai reati commessi in violazione delle norme antinfortunistiche. È evidente che non vi è interesse dell'ente a provocare un disastro ambientale né che ciò può arrecargli vantaggio; tuttavia quando l'imprenditore non organizza l'attività in linea con le prescrizioni del Dlgs 231/2001 accetta implicitamente il rischio di incorrere in un reato compreso nel catalogo o, quantomeno, mostra di essere negligente o imprudente. Quando poi l'accettazione del rischio di violare la legge è il risultato di scelte di contenimento di costi e di risparmio di spese, è ragionevole ritenere sussistente il "vantaggio" dell'ente.

Queste considerazioni non escludono tuttavia che i giudici debbano condurre un'attenta analisi delle circostanze del caso concreto per riempire, di volta in volta, di significato le nozioni di interesse e vantaggio, tenendo conto delle specificità dell'organizzazione imprenditoriale. Diversamente, si corre il pericolo di gravare l'impresa di rischi che la politica imprenditoriale intende invece scongiurare48 .

 

9. Prescrizione

L'istituto della prescrizione per quanto attiene alla responsabilità amministrativa degli enti non è strutturato sul modello della prescrizione prevista dal codice penale per le persone fisiche, (articolo 157 C.p. e ss.) quanto invece sul modello della prescrizione civilistica.

L'articolo 22 Dlgs 231/2001 fissa infatti il termine prescrizionale per le sanzioni amministrative in 5 anni a decorrere dal momento in cui si è consumato il reato, prevedendo in tal modo un unico termine prescrizionale per tutti i reati. Lo stesso articolo prevede due eventi interruttivi della prescrizione: la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell'illecito amministrativo ai sensi dell'articolo 59. Inoltre, per effetto dell'interruzione, la prescrizione inizierà un nuovo termine prescrittivo.

L'elemento di maggiore differenziazione tra i due regimi di prescrizione è dato dal quarto comma dell'articolo 22, Dlgs 231/2001, secondo cui "se l'interruzione è avvenuta mediante la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio". Il che vuol dire che è sufficiente iniziare per tempo il processo e poi si può tenere l'ente coinvolto nel giudizio per un tempo indeterminato49 .

Per effetto dell'articolo 8, Dlgs 231/2001 che sancisce l'autonomia della responsabilità degli enti non sarà per nulla inconsueto vedere nello stesso procedimento il proscioglimento per prescrizione della persona fisica e la prosecuzione del giudizio per la società (la cui responsabilità ha come presupposto proprio quella della persona fisica ormai non più giudicabile).

Ciò solleva alcune perplessità e induce ad auspicare un intervento del legislatore se non – prima – della Corte Costituzionale, sul tema della prescrizione, poiché si determina una irragionevole diversità di trattamento tra le persone fisiche e gli enti. In particolare, come si è detto, l'anomalia si coglie in caso di reati contravvenzionali, quali sono la maggior parte di quelli ambientali, in cui il termine di prescrizione del reato presupposto è minore di cinque anni50 .

In ogni caso, assume grande rilevanza individuare il momento in cui si perfeziona il reato, se è quindi un reato istantaneo o un illecito permanente. Nel caso di reato istantaneo, la prescrizione decorrerà immediatamente da tale momento mentre nel caso di reato di natura permanente il termine iniziale di prescrizione decorrerà solo dal momento di cessazione dell'illecito.

Nell'eventualità di cessazione formale del reato, ipotesi che si può avere quando sia intervenuta una sentenza di condanna ma la condotta illecita permanga determinando un'ulteriore configurabilità del reato, la prescrizione inizierà a decorrere dalla data della sentenza. In conseguenza di ciò il giudice disporrà la trasmissione degli atti al pubblico ministero per accertare la continuazione del reato ed eventualmente si potrà avere un'altra condanna.

Si ritiene applicabile tale disciplina anche alla disciplina della responsabilità amministrativa degli enti derivante da illeciti ambientali.

 

Allegato 1

Sistema sanzionatorio

Reati Sanzione
Scarico di acque reflue industriali contenenti sostanze pericolose, senza autorizzazione o con autorizzazione sospesa o revocata (articolo 137, comma 2) Sanzione pecuniaria + sanzione interdittiva non superiore a 6 mesi
Scarico di acque reflue industriali contenenti sostanze pericolose, in violazione delle prescrizioni autorizzative o comunque impartite dall'Autorità competente (articolo 137, comma 3) Sanzione pecuniaria
Scarico di acque reflue industriali con superamento dei limiti di scarico (articolo 137 comma 5) Sanzione pecuniaria
Scarico di acque reflue industriali con superamento dei limiti di scarico fissate in relazione alle sostanze pericolose (articolo 137 comma 5) Sanzione pecuniaria + sanzione interdittiva non superiore a 6 mesi
Violazione del divieto di scarico su suolo, sottosuolo e acque sottoranee (articolo 137, comma 11) Sanzione pecuniaria + sanzione interdittiva
non superiore a 6 mesi
Scarico in mare da parte di navi o aereomobili di sostanze o materiale (articolo 137 comma 13) Sanzione pecuniaria
Gestione illecita di rifiuti non pericolosi (articolo 256, comma 1, lettera a) Sanzione pecuniaria
Gestione illecita di rifiuti pericolosi (articolo 256, comma 1, lettera b) Sanzione pecuniaria
Discarica abusiva (articolo 256, comma 3) Sanzione pecuniaria
Discarica abusiva per rifiuti pericolosi (articolo 256, comma 3) Sanzione pecuniaria + sanzione interdittiva
non superiore a 6 mesi
Inosservanza delle prescrizioni o assenza dei requisiti per iscrizioni /comunicazioni (articolo 256, comma 4) Sanzione pecuniaria
Miscelazione vietata (articolo 256 comma 5) Sanzione pecuniaria
Deposito temporaneo illecito di rifiuti sanitari pericolosi (articolo 256, comma 6) Sanzione pecuniaria
Omessa comunicazione di inquinamento. Omessa bonifica con superamento delle Csr. (articolo 257 comma 1) Sanzione pecuniaria
Omessa bonifica con superamento delle Cse per inquinamento da sostanze pericolose (articolo 257 comma 1 e 2) Sanzione pecuniaria
Predisposizione/utilizzo di certificato di analisi falso (articolo 258) Sanzione pecuniaria
Traffico illecito di rifiuti (articolo 259) Sanzione pecuniaria
Attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti (articolo 260, comma 1 e 2) Sanzione pecuniaria più sanzione interdittiva non superiore a 6 mesi (interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività per gli enti con scopo unico o prevalente di commettere il reato)
Predisposizione/utilizzo di certificato di analisi falso del Sistri (articolo 260-bis, comma 6) Sanzione pecuniaria
Trasporto di rifiuti pericolosi senza la copia cartacea della scheda Sistri (articolo 260-bis, comma 7) Sanzione pecuniaria
Utilizzo di certificato di analisi falso durante il trasporto (articolo 260-bis) Sanzione pecuniaria
Trasporto di rifiuti con la copia cartacea della scheda Sistri fraudolentemente alterata Sanzione pecuniaria
Versamento doloso in mare delle sostanze inquinanti (articolo 8 comma 1, Dlgs 202/2007) Sanzione pecuniaria + sanzione interdittiva non superiore a 6 mesi (interdizione definitiva per gli enti con scopo unico o prevalente di reato)
Versamento doloso in mare delle sostanze inquinanti con danni permanenti o di particolari gravità alle acque, a specie animali o vegetali o a loro parti (articolo 8 comma 2, Dlgs 202/2007) Sanzione pecuniaria + sanzione interdittiva non superiore a 6 mesi (interdizione definitiva per gli enti con scopo unico o prevalente di reato)
Versamento colposo in mare delle sostanze inquinanti (articolo 9 comma 1, Dlgs 202/2007) Sanzione pecuniaria
Versamento colposo in mare delle sostanze inquinanti con danni permanenti o di particolari gravità alle acque, a specie animali o vegetali o a loro parti (articolo 9 comma 2, Dlgs 202/2007) Sanzione pecuniaria più sanzione interdittiva
non superiore a 6 mesi
Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette (articolo 727-bis C.p.) Sanzione pecuniaria
Distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto (articolo 733-bis C.p.) Sanzione pecuniaria
Emissione in atmosfera con superamento dei limiti, con contestuale superamento dei valori limite di qualità dell'aria (articolo 279, comma 5) Sanzione pecuniaria
Violazioni delle prescrizioni relative al commercio/detenzione di specie animali e vegetali in via di estinzione o di specie di animali selvatici pericolosi per salute e incolumità pubblica (articoli 1, 2, 6, 3-bis, legge 150/1992) Sanzione pecuniaria
Violazioni delle disposizioni in merito alla cessazione e riduzione dell'impiego delle sostanze ozono-lesive (articolo 6, comma 3 legge 549/1993) Sanzione pecuniaria

Note ufficiali

1.

Il decreto legislativo 7 luglio 2011 n. 121, in attuazione dell'articolo 19 della legge 4 giugno 2010, n. 96 (Legge Comunitaria 2009), ha modificato il decreto legislativo 231/2001 introducendo il nuovo articolo 25-undecies.

2.

Con il meccanismo dell'inserimento di un articolo in coda al catalogo dei reati presupposto, restano ovviamente fermi per l'attribuzione della responsabilità amministrativa agli enti, tutti i principi generali del Dlgs 231/2001, quali, ad esempio, la necessità che si possa riscontrare nella fattispecie un interesse o vantaggio dell'ente, che il fatto sia commesso da soggetti apicali o sottoposti, dopo il 16 agosto 2011, in assenza di un Modello effettivo ed efficace.

3.

Si veda ad esempio Assonime, il Caso n. 3 del 13 maggio 2010, "Sicurezza sul lavoro e specificità del modello 231".

4.

Cassazione penale, Sezione III, 7 ottobre 2008, n. 41329. Il ragionamento condotto dalla Corte è da condividere, in quanto si fonda sul fatto che manca nel testo dell'articolo 192, comma 4, una compiuta descrizione delle condotte illecite e l'indicazione delle sanzioni applicabili; il che, secondo l'opinione dei giudici, "indiscutibilmente contrasta con i principi di tassatività e tipicità che devono essere connaturati alla regolamentazione degli illeciti", quando si tratta di illeciti penali.

5.

Il richiamo al Dlgs 231/2001 effettuato dall'articolo 192 comma 4 era inteso dalla dottrina nel senso che occorre che il divieto di abbandono e deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sia commesso "nell'interesse o a vantaggio dell'ente" secondo quanto dispone l'articolo 5 del Dlgs 231, ma che ciò comporti poi, come effetto, la sola responsabilità solidale dell'ente in caso di condanna degli amministratori o rappresentanti dell'ente al risarcimento dei danni. M. Settis, Le ricadute dell'apparato sanzionatorio sul sistema produttivo: aspetti gestionali e modelli organizzativi ex Dlgs. 231/2001, in La tutela dell'ambiente. Profili penali e sanzionatori, a cura di D'Agostino e Salomone, Tratt. di Dir. Pen. impresa, Padova, 2011, 934, osserva che: "Ad aumentare la stranezza di questa prima incursione del Dlgs 231/2001 in campo ambientale è la constatazione che essa riguarda un illecito che il legislatore non sembra considerare di particolare gravità, a giudicare dalle modeste sanzioni previste dall'articolo 255, sia pure con il ritocco recentemente apportato dal Dlgs 205/2010: sanzione amministrativa pecuniaria da 300 a 3.000 euro, con raddoppio in caso di rifiuti pericolosi. Solo in caso di mancata ottemperanza all'ordinanza sindacale di rimozione o all'obbligo di separazione di rifiuti illegalmente miscelati si applica una sanzione penale di una certa entità (arresto fino a 1 anno)".

6.

In considerazione della limitazione derivante dall'entità della pene previste dall'articolo 2 della legge delega n. 96/2010, il legislatore delegato ha preferito rinviare un più completo ripensamento del sistema dei reati ambientali ad un successivo intervento normativo. Perciò, il decreto legislativo 121/2011 include soltanto quelle disposizioni strettamente necessarie a garantire l'adempimento agli obblighi comunitari scaturenti dalla direttiva 2008/99/Ce. Del resto, l'esigenza di rafforzare il sistema sanzionatorio introducendo sanzioni dotate di maggiore afflittività era stata già avvertita dal Legislatore che, nel corso della precedente legislatura, conclusasi anzitempo nel 2008, aveva visto la presentazione del Ddl 24 aprile 2007 (recante "Disposizioni concernenti i delitti contro l'ambiente") con cui si prevedeva l'inserimento di un autonomo Titolo VI-bis del Libro Secondo del Codice penale dedicato ai "Delitti contro l'ambiente".

7.

La direttiva 2008/99/Ce lascia invece impregiudicati i sistemi relativi alla responsabilità per danno ambientale previsti dal diritto comunitario o dal diritto nazionale.

8.

L'attuazione della direttiva 2008/99/Ce è stata però parziale, in quanto delle nove fattispecie ivi descritte la legge italiana ha espressamente riprese solo le due norme inserite nel codice penale. Non sono state prese in considerazione con la stessa formula (e ampiezza) prevista dalla direttiva le altre fattispecie, perché – come si evince dalla Relazione illustrativa – gran parte delle condotte sono già presenti nel nostro ordinamento nel codice dell'ambiente e in altre leggi speciali.

9.

Legge 28 dicembre 1993, n. 549 a tutela dell'ozono stratosferico e dell'ambiente; legge 7 febbraio 1992, n. 150, sui reati relativi all'applicazione in Italia della convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, nonché norme sulla commercializzazione e detenzione di esemplari vivi di mammiferi e rettili che possono costituire pericolo per la salute e l'incolumità pubblica.

10.

Il decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138 recante "ulteriori disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo" (pubblicato sulla Gu del 13 agosto 2011, n. 188 ed in vigore dallo stesso giorno) ha abrogato le disposizioni cardine del Dlgs 152/2006 (cd. "Codice ambientale") e provvedimenti satellite relative al sistema di tracciamento telematico dei rifiuti (Sistri). In sede di conversione, è stato invece ripristinato il Sistri. La legge 148/2011 prevede che al fine di garantire un adeguato periodo transitorio per consentire la progressiva entrata in operatività del Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri), nonché l'efficacia del funzionamento delle tecnologie connesse al Sistri, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, attraverso il concessionario Sistri, assicura, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e sino al 15 dicembre 2011, la verifica tecnica delle componenti software e hardware, anche ai fini dell'eventuale implementazione di tecnologie di utilizzo più semplice rispetto a quelle attualmente previste, organizzando, in collaborazione con le associazioni di categoria maggiormente rappresentative, test di funzionamento con l'obiettivo della più' ampia partecipazione degli utenti. Conseguentemente, fermo quanto previsto dall'articolo 6, comma 2, lettera f-octies), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, per i soggetti di cui all'articolo 1, comma 5, del decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 26 maggio 2011, pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 124 del 30 maggio 2011, per gli altri soggetti di cui all'articolo 1 del predetto decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 26 maggio 2011, il termine di entrata in operatività del Sistri è il 9 febbraio 2012 (NdR – Il termine è stato prorogato al 30 giugno dal Dl 216/2011, convertito il legge 14/2012).

11.

Articolo 8 - Inquinamento doloso

1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il Comandante di una nave, battente qualsiasi bandiera, nonché i membri dell'equipaggio, il proprietario e l'armatore della nave, nel caso in cui la violazione sia avvenuta con il loro concorso, che dolosamente violano le disposizioni dell'articolo 4 sono puniti con l'arresto da sei mesi a due anni e con l'ammenda da euro 10.000 ad euro 50.000.

2. Se la violazione di cui al comma 1 causa danni permanenti o, comunque, di particolare gravità, alla qualità delle acque, a specie animali o vegetali o a parti di queste, si applica l'arresto da uno a tre anni e l'ammenda da euro 10.000 ad euro 80.000.

3. Il danno si considera di particolare gravità quando l'eliminazione delle sue conseguenze risulta di particolare complessità sotto il profilo tecnico, ovvero particolarmente onerosa o conseguibile solo con provvedimenti eccezionali.

Articolo 9

Inquinamento colposo

1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il Comandante di una nave, battente qualsiasi bandiera, nonché i membri dell'equipaggio, il proprietario e l'armatore della nave, nel caso in cui la violazione sia avvenuta con la loro cooperazione, che violano per colpa le disposizioni dell'articolo 4, sono puniti con l'ammenda da euro 10.000 ad euro 30.000.

2. Se la violazione di cui al comma 1 causa danni permanenti o, comunque, di particolare gravità, alla qualità delle acque, a specie animali o vegetali o a parti di queste, si applica l'arresto da sei mesi a due anni e l'ammenda da euro 10.000 ad euro 30.000.

3. Il danno si considera di particolare gravità quando l'eliminazione delle sue conseguenze risulta di particolare complessità sotto il profilo tecnico, ovvero particolarmente onerosa o conseguibile solo con provvedimenti eccezionali.

12.

A. Scarcella, Responsabilità degli enti e modelli organizzativi ambientali: il recepimento della direttiva 2008/99/Ce, in Resp. amm. soc e enti, 2011, 64 s.

13.

A questo riguardo osservano M. Bortolotto – C. Parodi, Modello organizzativo e reati ambientali: luci e ombre dopo la riforma nel rapporto con il testo unico sull'ambiente, in La resp. amm. della soc. e degli enti, 2012, 49, che statisticamente quest'ipotesi è quella che trova maggiore riscontro nella casistica processuale. Questa dimenticanza sembra secondo questi autori dovuta a una svista del Legislatore.

14.

A. Madeo, Un recepimento solo parziale della direttiva 2008/99/Ce sulla tutela penale dell'ambiente, in Riv. pen. e proc., 2011, 1064.

15.

Così si legge nelle Osservazioni di Confindustria allo Schema di decreto legislativo di recepimento della direttiva 2008/99/Ce e della direttiva 2009/123/Ce che modifica la direttiva 2005/35/Ce relativa dall'inquinamento provocato dalle navi, del 29 aprile 2011.

16.

A. Madeo, op. cit., 1063 s.

17.

Va peraltro segnalato che, di recente, il tema della Responsabilità sociale di Impresa è indicato come una priorità nell'azione della Commissione europea. Vedi Eu Comm, 25 ottobre 2011 che offre una definizione di Rsi più ampia guardando agli impatti dell'attività d'impresa sulla società nel suo complesso.

18.

Per un confronto tra Rsi e filosofia 231 si veda C. Manacorda, Responsabilità amministrativa e responsabilità sociale delle imprese: divergenze e convergenze, in Resp. Amm. soc., 2007, p. 59.

19.

Si definisce una norma tecnica quella specifica tecnica, approvata da un organismo riconosciuto, per l'applicazione ripetuta o continua, la cui osservanza non sia obbligatoria. Cfr. E. Bellisario, Certificazioni di qualità e responsabilità civile, Milano, 2011, 110.

20.

20 La norma Iso 14001 definisce il Sistema di gestione ambientale come "la parte del sistema di gestione generale che comprende la struttura organizzativa, le attività di pianificazione, le responsabilità, le prassi, le procedure, i processi, le risorse per elaborare, mettere in atto, conseguire, riesaminare e mantenere attiva la politica ambientale". Una definizione del tutto analoga è contenuta nel regolamento Emas (articolo 2, lettera k) secondo il quale il Sistema di gestione ambientale è la "parte del sistema complessivo di gestione comprendente la struttura organizzativa, le attività di pianificazione, le responsabilità, le pratiche, le procedure, i processi e le risorse per sviluppare, mettere in atto, realizzare, riesaminare e mantenere la politica ambientale".

21.

Afferma M. De Rosa, Le certificazioni ambientali e la responsabilità sociale del territorio, in Ianus, 2, 2010, p. 19 che l'Iso: "è un ente privato e le norme tecniche, come la 14001, da essa elaborate e pubblicate, hanno la caratteristica di non essere obbligatorie bensì ad adozione volontaria. Un'organizzazione, infatti, che decida di progettare e rendere operativo un sistema di gestione ambientale è libera di adeguarsi o meno alle prescrizioni della 14001 per intraprendere un percorso gestionale conforme agli standard ambientali da rispettare nella struttura organizzativa. È vero, però, che la possibilità di ottenere, da parte di un terzo indipendente, la certificazione del Sga e di dare a tale evento visibilità esterna rende maggiormente appetibile, per un'organizzazione, conformare il proprio sistema di gestione ambientale ai requisiti di standard".

22.

Su questi aspetti si veda anche M. Pansarella, Reati ambientali: il set dei controlli a presidio, in La resp. amm. della società e degli enti, 2012, 241 ss.

23.

Su cui si rinvia a circolare Assonime sull'attribuzione delle funzioni dell'OdV all'organo di controllo, in corso di pubblicazione.

24.

V. Veneroso, I modelli di organizzazione e gestione, ex Dlgs. n. 231/2001, nella prevenzione dei reati ambientali (parte II), in Ambiente e Sviluppo, 2012, p. 60.

25.

Sul punto v. M. Settis, op. cit., 957 s.

26.

L'articolo 25-septies del decreto 231, prevede l'applicazione di gravi sanzioni pecuniarie e interdittive in caso di omicidio colposo (articolo 589 C.p.) o di lesioni colpose gravi o gravissime (articolo 590 C.p.) commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene e della salute sul lavoro. La scelta di includere questi reati tra quelli rilevanti ai fini dell'applicazione del sistema 231 è particolarmente significativa nella recente storia della legge sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, dal momento che l'articolo 25-septies introduce il primo caso di reato colposo per il quale sia contemplata la responsabilità dell'ente. Tutti gli altri reati ritenuti rilevanti ai fini della legge presuppongono, infatti, per quanto riguarda l'elemento soggettivo del reato, una condotta dolosa e non meramente colposa. Sul tema v. A. Alessandri, Reati colposi e modelli di organizzazione e gestione, in Analisi giuridica dell'Economia, 2009, 337 ss.

27.

Articolo 30.1.

Il modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, deve essere adottato ed efficacemente attuato, assicurando un sistema aziendale per l'adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi: a) al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi a attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; b) alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti; c) alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; d) alle attività di sorveglianza sanitaria; e) alle attività di informazione e formazione dei lavoratori; f) alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori; g) alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge; h) alle periodiche verifiche dell'applicazione e dell'efficacia delle procedure adottate. 2. Il modello organizzativo e gestionale di cui al comma 1 deve prevedere idonei sistemi di registrazione dell'avvenuta effettuazione delle attività di cui al comma 1". L'articolo 30 quinto comma precisa poi che "in sede di prima applicazione" se i modelli di organizzazione sono definiti conformemente alle Linee Guida Uni-Inail o al British Standard OHSAS 18001:2007, si presumono conformi ai requisiti prescritti.

28.

Vedi anche V. Veneroso, op. cit., 59.

29.

Osserva M. Settis, op. cit., 959, che non si evidenziano incompatibilità tecniche all'integrazione tra i due sistemi, e la presenza di un sistema di gestione aziendale pare rappresentare una buona base per costruire un modello organizzativo adeguato ai requisiti 231. Le possibili criticità si possono avere nel processo di audit.

30.

A. Scarcella, op. cit., 68.

31.

I requisiti sono i seguenti: la delega deve essere formale ed espressa; deve essere specifica; vi deve essere un effettivo trasferimento di poteri decisionali in capo al delegato, con attribuzione di autonomia gestionale; le dimensioni dell'impresa devono giustificare la scelta di decentramento; il delegato deve avere competenze e capacità di svolgere la funzione. In caso di reato ambientale, ci vuole la prova della mancata conoscenza della negligenza o sopravvenuta inidoneità del delegato; l'inquinamento non deve derivare da cause strutturali dovute ad omissioni di scelte generali.

32.

V. Veneroso, op. cit., p. 59.

33.

M. Settis, op. cit., 947.

34.

Corte Giustizia 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C342/94 e C-224/95, in Foro it., 1997, IV, 378, citata da V. Paone, La gestione dei rifiuti: i reati, in La tutela dell'ambiente, a cura di D'agostino e Salomone, Tratt. dir. pen. dell'impresa, cit., 340 ss.

35.

Cassazione penale, 20 novembre 2007, n. 358, in Ced, Cassazione, 2008.

36.

Cassazione penale 13 aprile 2010 n. 216555, in Ced, Cassazione 2010; Cassazione penale 25 novembre 2009, n. 8300, in Ambiente e sviluppo, 2010, 754. Ciò assume grande rilevanza ai fini della prescrizione del reato, infatti da tale momento inizia a decorrere il termine prescrittivo; per cenni sul tema della prescrizione si rinvia all'ultimo paragrafo.

37.

Cassazione penale, 25 maggio 2011, n. 24428, in Ced Cassazione 2011.

38.

Tra le tante, cfr. Cassazione 27 marzo 2007, in Riv. amb. e lav., 2007, 47; Cassazione 15 gennaio 2008 n. 7461, in Dir e giur. agr. e amb., 2009, 52.

39.

Cassazione penale, 25 maggio 2011, n. 23971, in Amb e sviluppo, 2011, p. 1072.

40.

Cassazione penale, 9 luglio 2009, n. 36836, in Amb. e sviluppo, 2010, 313.

41.

Cassazione penale 2 luglio 2007, n. 28158, in Mass. Giur. it., 2007.

42.

Cassazione penale 10 luglio 2008 n. 30847, in Ced, Cass. 2008.

43.

C. Santoriello, Riflessioni sulla possibile responsabilità degli enti collettivi in presenza dei reati colposi, in La resp. amm. soc. e degli enti, 2011, p.77.

44.

C. Santoriello, Riflessioni sulla possibile responsabilità degli enti collettivi in presenza dei reati colposi, cit., p.81.

45.

Occorre dunque guardare la condotta e non l'evento. Così A. Lanzi, in Taluni aspetti della responsabilità dell'ente in relazione ai reati che riguardano la sicurezza nel lavoro, in Sicurezza nel lavoro – Colpa di organizzazione e impresa, a cura di F. Curi, Bologna, 2009, 38.

46.

Tribunale di Trani, su cui v. Assonime, Il Caso, n. 3/2010, "Sicurezza sul lavoro e specificità del modello 231".

47.

Mentre nei reati dolosi è necessaria una corrispondenza tra l'intenzione dell'autore del reato e gli obiettivi della società perché si possa affermare la responsabilità di entrambi, nei reati colposi, per estendere la responsabilità all'ente occorre accertare di volta in volta se la colpa del singolo sia conseguenza della mancanza di un'adeguata preventiva organizzazione dell'impresa, che ha reso possibile la presenza di aree di rischio nei quali si inserisce la condotta colposa del singolo.

48.

G. Catalano - C. Giuntelli, Interesse e/o vantaggio dell'ente: nuovi percorsi giurisprudenziali (in particolare nei reati colposi), in La resp. amm. delle soc. e degli enti, 2012, p. 104 secondo i quali la verifica probatoria dell'interesse e /o vantaggio deve essere proiettata verso una valutazione generale delle scelte organizzative dell'ente in materia di sicurezza del lavoro.

49.

Ciò, lo si ripete, a differenza del regime di prescrizione dei reati, per il quale, a mente dell'articolo 160, ultimo comma, C.p. in nessun caso il termine di prescrizione può superare il limite previsto dall'articolo 161 C.p. Dunque un processo per una semplice contravvenzione dovrà essere concluso – giudizio di Cassazione compreso – entro cinque anni dalla commissione del fatto.

50.

Con il rischio che questa disparità possa accentuare il coinvolgimento dell'ente nel giudizio. Tale rischio è in parte attenuato dal disposto dell'articolo 60 Dlgs 231, il quale prevede che non si possa procedere alla contestazione dell'illecito amministrativo dell'ente se il reato alla base di esso si è estinto per prescrizione (Uff. indagini preliminari Milano 11 maggio 2009).

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