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Sentenza Tribunale di Gela 24 marzo 2006, n. 201

Rifiuti - Combustione dei reflui e correnti gassosi - Incenerimento dei rifiuti - Sussiste

Tribunale

Tribunale di Gela, Sezione penale - Sentenza 24 marzo 2006, n. 201

Tribunale di Gela, Sezione penale — Sentenza 24 marzo 2006, n. 201

 

Repubblica italiana

In nome del popolo italiano

 

Il Tribunale di Gela, sezione penale, in composizione monocratica,

in persona della dott.ssa Veronica Vaccaro

 

Alla pubblica udienza del 24 marzo 2006 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

 

Sentenza

(articoli 544 e seguenti C.p.p.)

 

nella causa penale

contro

(...), libero— contumace

(...) , libero— presente

Imputati

 

A) per il reato previsto dall'articolo 25 comma 2 del Dpr 203/1988 perché — quale direttore dello stabilimento Agip Petroli Spa di Gela — esercitando un impianto esistente originante emissioni in atmosfera autorizzato con decreto Assessoriale n. 24/17 dell'Assessorato al territorio ed all'ambiente della Regione siciliana del 20/1/1999, commetteva le seguenti violazioni delle prescrizioni autorizzative:

1. impianto Vacuum: violazione della prescrizione autorizzativa relativa all'utilizzazione dell'olio combustibile, la cui concentrazione varia da un valore minimo del 1,46% ad uno massimo del 2,1%;

2. impianto Cracking catalitico: violazione della prescrizione autorizzativa per non avere installato un rilevatore in continuo di CO sull'emissione dal CO boiler e, contemporaneamente, nella omessa sostituzione del bruciatore del CO boiler con uno a basso tenore di ossidi di azoto (per cui si è proceduto separatamente con sentenza di oblazione);

3. impianto Trattamento Acque Stabilimento (Tas): violazione della prescrizione autorizzativa per non avere provveduto alla copertura e conseguente pressurizzazione dello sgrigliatore, di tre flottatori di cui due in esercizio ed uno vuoto, della vasca S15 di raccolta delle acque in uscita dai flottatori, della canaletta Parshall per la misura della portata in uscita dai flottatori, di un filtro sotto vuoto per la concentrazione e separazione della fase semisolida proveniente dal fondo del serbatoio S10A;

4. campagne di monitoraggio: violazione della prescrizione autorizzativa per avere attuato campagna di monitoraggio con frequenza inferiore a quella prescritta, per avere inoltre attuato tali campagne in modo difforme dalla prescrizione contenuta all'articolo 2, penultimo capoverso del decreto autorizzativo e cioè mediante prelievi ripetuti almeno due volte nell'arco di dieci giorni, e per avere attuato dette campagne con modalità non idonee a verificare le concentrazioni della bolla di stabilimento per avere omesso di provvedere al monitoraggio contemporaneo di tutte le emissioni.

Fatti commessi in Gela dal dicembre 1999 al dicembre 2001 e tuttora in permanenza.

 

B) per il reato di cui all'articolo 51 comma 1 comma 2 Dlgs 22/1997 perché — quale direttore dello stabilimento Agip Petroli Spa di Gela — ed in mancanza della prescritta autorizzazione, effettuava le seguenti attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento e commercio di rifiuti:

1. impianto Cracking catalitico: attività di incenerimento dei rifiuti mediante combustione del refluo gassoso ricco di CO e derivante dalla rigenerazione del catalizzatore, da considerarsi incenerimento a norma del Dm 503/98 (rifiuti speciali non pericolosi — Cer sezione 05 00 00, sottosezione 05 06 00, codice 05 06 99);

2. impianto Alchilazione: attività di incenerimento dei rifiuti mediante combustione di Aso (rifiuti speciali pericolosi — Cer codice 05 01 04) (per cui si è proceduto separatamente a seguito di stralcio con sentenza di patteggiamento);

3. impianto Trattamento Acque Stabilimento (Tas): attività di incenerimento dei rifiuti mediante combustione del refluo gassoso proveniente dalle vasche Api coperte e polmonate, da considerarsi incenerimento a norma del Dm 503/98 (rifiuti speciali non pericolosi — Cer sezione 05 00 00, sottosezione 05 01 00, codice 05 01 99);

4. impianto Claus: attività di incenerimento dei rifiuti mediante combustione della corrente gassosa residuale del Claus (rifiuti speciali non pericolosi — Cer codice 05 05 01).

Fatti commessi in Gela dal dicembre 1999 al mese di dicembre 2001 e tuttora in permanenza.

 

C) del delitto previsto dall'articolo 674 C.p. perché, mediante la condotta contestata al capo a) e b) dell'imputazione, esercitando un impianto esistente, presso l'insediamento produttivo di Gela, senza le necessarie autorizzazioni ai sensi della legge 203/1988 per poter emettere fumi in atmosfera, o comunque in violazione delle prescrizioni autorizzative, cagionavano un inquinamento aeriforme dovuto al riversamento di fumi e/o polveri all'esterno, coinvolgendo tutte le zone circostanti, compreso il centro abitato della città di Gela e delle città limitrofe.

Fatti commessi in Gela dal dicembre 1999 al mese di dicembre 2001 e tuttora in permanenza.

 

Conclusioni

Il Pm chiede: per il capo A.1 non doversi procedere per intervenuta estinzione per prescrizione per entrambi gli imputati; per il capo A.3 assoluzione perché il fatto non sussiste per entrambi gli imputati; per il capo A.4 non doversi procedere per intervenuta estinzione per prescrizione per (...) e condanna per (...); per i capi B) e C) condanna per entrambi alla pena di mesi sei di arresto, convertita ai sensi della legge 689/1981 nella pena pecuniaria di 54.000 euro di ammenda ciascuno.

La difesa della parte civile Italia Nostra Onlus chiede la condanna degli imputati oltre che per i capi B) e C) anche per il capo A.3) e il risarcimento del danno e rifusione delle spese coma da comparsa conclusionale e nota spese versata in atti;

La difesa della parte civile Amici della Terra Onlus chiede la condanna degli imputati e il risarcimento del danno e rifusione delle spese coma da comparsa conclusionale e nota spese versata in atti;

Le difese dell' imputato (...) chiedono l'assoluzione dell'imputato per il capo A.1, A.3, A.4, B) e C) perché il fatto non sussiste;

Le difese dell' imputato (...) chiedono l'assoluzione dell'imputato per il capo A.1, A.3, A.4, perché il fatto non sussiste B) e C) perché il fatto non sussiste e in subordine perché il fatto non costituisce reato.

 

Svolgimento del processo

Con decreto di citazione diretta a giudizio emesso dal Pm in data 4 settembre 2003, (...) e (...) sono stati chiamati dinanzi a questo Tribunale in composizione monocratica per rispondere dei reati indicati nell'imputazione.

In data 15 gennaio 2004 veniva emessa sentenza di estinzione per oblazione del reato di cui alla prima parte del capo A.2 dell'imputazione per (...).

Alla prima udienza di comparizione del 22 gennaio 2004 il processo non si celebrava per adesione dei difensori all'astensione dalle udienze proclamata dall'assemblea degli avvocati del foro di Gela.

Successivamente, su istanza degli imputati, veniva chiesta l'ammissione all'oblazione in relazione al capo A.2 e A.4 prima parte dell'imputazione. In data 29 gennaio 2004, giusta ordinanza di questo Giudice agli atti, veniva ammessa l'oblazione solo in relazione al capo A.2 dell'imputazione per (...) e in relazione al capo A. 2, seconda parte, per (...), nei confronti dei quali veniva pronunciata sentenza di estinzione per avvenuto pagamento dell'oblazione in data 13 maggio 2004, con formazione di separato fascicolo.

All'udienza di rinvio del 13 maggio 2004, verificata la regolare instaurazione del contraddittorio, dichiarata la contumacia degli imputati, con ordinanza allegata al verbale d'udienza, il Giudice ammetteva la costituzione di parte civile dell'associazione ambientalista "Italia Nostra Onlus" sia in proprio, sia in sostituzione dello Stato in virtù del principio espresso dall'articolo 81 C.p.c., in quanto associazione riconosciuta ai sensi dell'articolo 13 della legge n. 349/1986 e quindi abilitata, ai sensi dell'articolo 18 comma 5 della legge cit., ad intervenire in luogo dello Stato nei giudizi per danno ambientale.

Alla medesima udienza veniva disposto lo stralcio del procedimento, relativamente all'imputazione di cui al capo B.2 (impianto di alchilazione), per richiesta delle parti di patteggiamento in relazione a tale parte dell'imputazione. Questo Giudice riteneva di aderire all'orientamento giurisprudenziale meno restrittivo, favorevole alla separazione dei procedimenti ed alla definizione con riti diversi dei vari capi d'imputazione nei confronti dello stesso imputato; detto procedimento, originatosi da tale stralcio, veniva poi definito da altro Giudice con sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.

All'udienza del 24 giugno 2004 veniva ammessa la costituzione di parte civile dell'associazione ambientalista "Amici della Terra Onlus— club di Gela" in proprio, giusta ordinanza allegata al verbale d'udienza. Alla medesima udienza veniva aperto il dibattimento ed ammesse le prove orali richieste dalle parti. In ordine alle prove documentali il Giudice si riservava e all'udienza del 18 novembre 2004 le ammetteva a scioglimento della riserva; vista poi l'assenza dei testi giustificati, veniva disposto il rinvio.

All'udienza del 24 febbraio 2005 veniva assunto l'esame dei consulenti tecnici del Pm, dott.ri Sanna e Mininni, senza la presenza dei consulenti tecnici della difesa per rigetto della relativa istanza proveniente dai difensori e ciò sul presupposto che la presenza dei consulenti della difesa all'esame dei consulenti del Pm avrebbe potuto compromettere la genuinità del relativo successivo esame. All'esito dell'esame dei dott.ri Sanna e Mininni veniva acquisita ex articolo 501 cpv. C.p.p. la relazione tecnica.

All'udienza del 31 marzo 2005 venivano sentiti i testi del Pm Cauchi Gaetano, Smorta Crocifisso, Melfa Davide, Gandolfo Luigi e Di Blasi Saverio; veniva quindi ammessa la produzione della parte civile Italia Nostra relativa al verbale di sopralluogo dei tecnici della Provincia del 15.6.2000 trattandosi di atto irripetibile, come mera prova documentale di un fatto storicomma

All'udienza del 12 maggio 2005 veniva assunto l'esame del teste del Pm Brig. C.C. Maugeri nonché dei testi della difesa, dott.ssa Frassica, dipendente della raffineria di Gela, responsabile del settore ecologia ed igiene industriale e del dott. Perozzi; con il consenso delle parti, veniva quindi acquisita la documentazione relativa ai periodi di assunzione della carica di direttore della raffineria da parte degli imputati.

All'udienza dell'11 luglio 2005, su richiesta della difesa, veniva ammessa la documentazione inerente ai quadri riepilogativi dei reports relativa alle campagne di monitoraggio presenti nell'archivio della raffineria, inviati agli enti di controllo.

Alla medesima udienza veniva assunto l'esame dei consulenti tecnici della difesa prof.ri Giacomello e Spadoni.

All'udienza del 17 ottobre 2005 si procedeva ad un mero rinvio per assenza dei testi.

All'udienza del 26 gennaio 2006 veniva proseguito l'esame dei consulenti della difesa prof.ri Giacomello e Spadoni con la presenza autorizzata dei consulenti del Pm dott.ri Sanna e Mininni, essendo venute meno ormai le ragioni di compromissione della genuinità della prova. All'esito dell'esame, per il principio di parità delle parti, veniva di nuovo disposto d'ufficio ex articolo 507 C.p.p. l'esame dei consulenti del Pm, con la presenza autorizzata dei consulenti della difesa, procedendosi in tal modo ad un sostanziale confronto fra consulenti tecnici della pubblica accusa e della difesa. Ai sensi dell'articolo 501 cpv. C.p.p., veniva acquisita la relazione tecnica dei consulenti della difesa, nonché, nulla osservando le altre parti, veniva acquisita la relazione tecnica supplementare dei consulenti del Pm Sanna e Mininni inerente alla documentazione — acquisita agli atti all'udienza dell'11/7/2005 — prodotta dalla difesa; veniva, quindi, dichiarata la chiusura dell'istruttoria dibattimentale.

All'apertura dell'udienza del 24 marzo 2006, il Giudice, ritenuto assolutamente necessario ai fini del decidere, ammetteva ai sensi degli articoli 523 comma VI e 507 C.p.p. l'assunzione dell'esame testimoniale dell'Ing. Toscano, tecnico della Provincia, richiesto dalla parte civile Amici della Terra all'udienza del 12/5/2005. All'esito, dichiarati utilizzabili gli atti istruttori acquisiti durante il dibattimento, il Giudice invitava le parti a rassegnare le proprie rispettive conclusioni.

 

In fatto e in diritto

I criteri ermeneutici adottati

In base al combinato disposto di cui agli articoli 192 I comma e 546 lett. e) C.p.p. il Giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati; la sentenza, inoltre, deve indicare la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l'indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l'enunciazione delle ragioni per le quali il Giudice ritiene non attendibili le prove contrarie.

Gli elementi di fatto raccolti nell'istruttoria dibattimentale sono stati vagliati e posti a fondamento della decisione relativa ad ogni posizione e ad ogni imputazione seguendo un logico percorso argomentativo, di cui sarà dato conto nel corso della motivazione.

La disamina delle complesse questioni tecniche che hanno visto contrapposte le tesi avanzate dalla pubblica accusa e dalle parti civili, da una parte, e dalle difese degli imputati, dall'altra, ha reso necessario, ai fini del decidere, un attento e scrupoloso studio delle questioni affrontate e della normativa speciale, di diritto interno e comunitario, applicabile al caso concreto, alla luce dei principi espressi in materia dalla Suprema Corte di Cassazione e dalla Corte di Giustizia europea.

Si precisa, inoltre, che — come indicato dalla Suprema Corte di Cassazione — "nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata" (cfr. Cassazione Sezione IV, sentenza 24 ottobre 2005— 13 gennaio 2006 n. 1149).

 

Le singole imputazioni

Capo A) articolo 25 Dpr n. 203/1988

Capo A. 1 — Impianto Vacuum

L'impianto Vacuum della raffineria è deputato alla distillazione del prodotto di fondo derivante dall'impianto Topping 1. Tale prodotto di fondo "prima del suo ingresso nella colonna dell'impianto Vacuum, è riscaldato in un unico forno (330-F1), i cui bruciatori sono alimentati da olio combustibile e fuel gas, che vengono bruciati in miscela. Si rammenta in merito che il cosiddetto "fuel gas" è un gas combustibile prodotto in svariate operazioni produttive della raffineria: è composto in generale da idrogeno, metano ed etano e contiene anche solfuro d'idrogeno (o idrogeno solforato). Quest'ultimo deve essere eliminato sia per consentirne l'uso quale combustibile "pulito" sia per migliorare la resa dell'impianto Claus di produzione dello zolfo. Per la desolforazione si procede coi seguenti passi: — assorbimento in Dea (dietanolammina): l'idrogeno solforato contenuto nel gas è assorbito nella soluzione acquosa di Dea e esce dalla colonna di assorbimento pressoché "pulito" e pronto per la combustione nei forni della raffineria; — stripping della Dea : la soluzione acquosa di Dea , che esce dalla colonna precedente ricca di idrogeno solforato, viene riscaldata con l'obiettivo di "pulirla", attraverso la "liberazione" di un gas ricco di idrogeno solforato, e riutilizzarla nella colonna di assorbimento. Infine la corrente gassosa ottenuta dalla colonna di stripping, ricca di idrogeno solforato, è inviata all'impianto Claus, dove si opera per produrre zolfo mediante reazioni" (v. cons. tec. difesa imputati; Giacomello, Spadoni pag. 3-4).

In merito all'impianto Vacuum il decreto assessorile n. 24/17 del 20/1/1999 — emesso dalla Regione Sicilia, Assessorato territorio e ambiente, ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 12, 13 e 17 del Dpr n. 203 del 24/5/1988, autorizzando, nel rispetto delle prescrizioni e dei limiti ivi indicati, le emissioni in atmosfera derivanti dall'attività di raffinazione di oli minerali svolta nello stabilimento di Gela (v. articolo 1 Da n. 24/17) — prescriveva: "i bruciatori deputati al riscaldamento dell'alimentazione devono utilizzare combustibili Btz (ossia a basso tenore di zolfo) aventi tenore di zolfo inferiore all'1%, incluso il Fuel-gas dopo la pulizia dello stesso attraverso la desolforazione con Dea .".

Secondo la prospettazione della difesa degli imputati, la prescrizione del decreto assessorile faceva riferimento, ai fini del rispetto del limite dell'1%, alla composizione media dell'insieme dei due combustibili utilizzati, ovvero del mix olio combustibile + fuel gas (v. cons. tec. difesa Giacomello, Spadoni pag. 4) e pertanto, essendo stato tale limite rispettato, si chiedeva di emettere una decisione assolutoria sul punto, perché il fatto non sussiste.

Al riguardo occorre, tuttavia, osservare che dalla relazione tecnica del Pm è emerso che i consulenti dott.ri Sanna e Mininni effettuarono l'ispezione dell'impianto il 27 marzo 2001 (v. cons. tecnica Pm Sanna-Mininni pag. 13) e che, sulla base della documentazione esistente in raffineria, rilevarono che nel periodo tra il 15/12/2000 e il 14/6/2001 il contenuto di zolfo presente nell'olio combustibile aveva evidenziato una media dell'1,72% con risultati variabili dall'1,46% al 2,1% ad eccezione di due valori molto bassi del 28/12/2000 e del 31/1/2001 (v. cons. tecnica Pm Sanna-Mininni pag. 14 e 84), con palese superamento del limite dell'1% indicato nell'autorizzazione.

Ritiene il Giudicante che se è vero, come prospettato dalla difesa degli imputati, che la prescrizione autorizzativa de qua indicava il limite ammesso dell'1% di zolfo, riferendosi alla miscela di olio combustibile e fuel gas, è però anche vero che i dati contenuti nell'archivio della raffineria ed esaminati dai consulenti dell'accusa, hanno rilevato il superamento di detto limite — nel periodo sopra indicato tra il 15/12/2000 e il 14/6/2001 — con riferimento al solo olio combustibile. Poiché, tuttavia, anche il fuel gas contiene atomi di zolfo nella molecola di idrogeno solforato (H2S) — atteso che come gli stessi consulenti della difesa hanno chiarito, nel fuel gas vi è anche idrogeno solforato, altrimenti detto solfuro d'idrogeno o acido solfidrico (v. cons. tec. difesa Giacomello, Spadoni pag. 3) — ne deriva che, se i dati riguardanti i rilevamenti indicavano già il superamento del limite dell'1% di zolfo con riferimento al solo olio combustibile (contenuto di zolfo nell'olio combustibile pari all'1,72%), a maggior ragione doveva ritenersi superato, ed in misura maggiore, detto limite con riferimento al mix olio combustibile e fuel gas, per la presenza di zolfo anche nel fuel gas.

I dati relativi al contenuto di zolfo nel fuel gas in particolare e nel mix olio combustibile + fuel gas in generale non sono emersi in dibattimento, ma per le ragioni testé spiegate, deve ritenersi, necessariamente, nel periodo di riferimento, superato il limite consentito dell' 1% del contenuto di zolfo del mix, poiché il valore medio dell'1,72% rilevato, riguardava il contenuto di zolfo del solo olio combustibile.

Nel periodo tra il 15/12/2000 e il 14/6/2001 era direttore della raffineria (...) , che ha rivestito tale ruolo dall'1.11.2000 al 20.12.2001 (v. doc. in atti) e poiché per detta qualità era tenuto ad osservare la diligenza professionale specifica richiesta all'homo eiusdem professionis et condicionis, doveva osservare e far osservare ai preposti tutte le cautele necessarie per assicurare il rispetto del limite prescritto dall'autorizzazione regionale, cosa che invece di fatto non è avvenuta.

Ne deriva conseguentemente l'avvenuta commissione della contravvenzione, di cui all'articolo 25 del Dpr n. 203/88, da parte del (...), nel periodo tra il 15/12/2000 e il 14/6/2001, oggi estinta per decorso del periodo massimo di prescrizione, perfezionatosi in data 14/12/2005 e per tale motivo deve essere emessa una pronuncia di non doversi procedere nei confronti del (...), in ordine al capo A.1 dell'imputazione, per avvenuta estinzione per prescrizione.

(...) , invece, in relazione a questa imputazione deve essere assolto per non aver commesso il fatto, non avendo rivestito nel periodo tra il 15/12/2000 e il 14/6/2001 la carica di direttore della raffineria (assunta invece nel periodo dal 21.12.2001 al 16.4.2004), né altri dati relativi ai rilevamenti del contenuto di zolfo dei combustibili dell'impianto Vacuum sono emersi in giudizio con riferimento al periodo successivo al 14/6/2001.

Peraltro, il successivo decreto assessorile n. 119/2002 del 14/3/2002 — sostitutivo del Da n. 24/17 (v. articolo unico prima parte del Drs 119/2002) — modificava per eccesso il limite tollerato di zolfo del mix olio combustibile e fuel gas consentendolo nella misura inferiore al 2%, stabilendo per l'impianto Vacuum la seguente prescrizione: "i bruciatori deputati al riscaldamento dell'alimentazione devono utilizzare, anche sottoforma di mixing, con tenore complessivo di zolfo inferiore al 2% in peso, incluso il Fuel-gas previamente trattato nell'unità di desolforazione con Dea .".

Ne deriva che a partire dal 14/6/2001, sia per l'assenza di qualsiasi specifico rilevamento emerso in giudizio, sia per l'ampliamento del limite consentito del contenuto di zolfo del mix del combustibile dell'impianto Vacuum, nessun rilievo può essere avanzato nei confronti degli imputati.

 

Capo A. 3 — Trattamento acque di stabilimento (Tas)

L'impianto di trattamento delle acque di stabilimento presente nella raffineria di Gela ha la funzione di consentire la separazione per gravità dei liquidi idrocarburici (olii idrocarburici) dall'acqua: quest'ultima ne risulta depurata ed inviata al trattamento biologico, mentre gli olii idrocarburici possono essere reimmessi nel ciclo produttivo.

Il processo di separazione degli olii idrocarburici dall'acqua comporta la formazione di reflui gassosi idrocarburici, i quali per la loro natura inquinante non possono essere immessi liberamente in atmosfera e per tale motivo l'impianto Tas risulta coperto per circa il 95%, proprio al fine di non consentire la libera immissione in atmosfera di queste sostanze idrocarburiche volatili; il restante 5% circa dell'impianto, tuttavia, risulta scoperto.

I consulenti della difesa degli imputati hanno descritto dettagliatamente l'impianto in oggetto chiarendo che: "l'impianto di trattamento delle acque di stabilimento (Tas ) prevede, nella sua prima sezione di trattamento chimico-fisico, una serie di lavorazioni in cascata che hanno lo scopo di separare dalle acque che ad esso affluiscono sostanze quali: olii, grassi idrocarburi ecc. che possono essere reimmessi nel ciclo produttivo di raffineria così conferendo in uscita reflui di qualità compatibile con il trattamento dell'impianto biologicomma A quest'ultimo giungono anche, come noto, le acque reflue urbane.

Inizialmente gli scarichi liquidi che giungono al Tas transitano da uno sgrigliatore che elimina i materiali grossolani — le griglie trattengono i corpi con diametro medio superiore alla distanza tra esse — e raggiungono le vasche Api la cui funzione è di effettuare una separazione per gravità del liquido idrocarburico dall'acqua. Nei successivi flottatori la componente oleosa ancora presente si separa grazie all'aggiunta di tensioattivi e all'insufflazione di aria che ne favorisce l'emersione in superficie. Si osserva inoltre che l'ossigeno dell'aria contribuisce attraverso i processi chimici di ossidazione alla aggregazione e successiva separazione delle micelle.

La corrente di acqua risultante, che transita nella vasca S15 e percorre la canaletta Parshall, è infine trasferita all'impianto biologicomma

In sintesi quindi le acque inquinate d'ingresso al Tas subiscono trattamenti e, dopo ognuno di questi, si realizza un grado maggiore di purificazione sino all'ultimo stadio — la flottazione — dal quale escono acque che possono essere tranquillamente sottoposte al trattamento biologico alla stessa stregua dei reflui urbani. In tale trattamento finale le tracce di inquinanti ancora rimasti vengono metabolizzati da batteri e le acque risultanti sono conformi ai limiti tabellari degli scarichi.

La natura idrocarburica dei reflui contenuti genera emissioni atmosferiche diffuse e la prescrizione di copertura delle vasche relative all'impianto Tas è infatti volta al contenimento di queste emissioni di sostanze organiche volatili che possono liberarsi nel corso dei trattamenti di separazione della fase oleosa da quella acquosa." (v. cons. tec. difesa imputati; Giacomello, Spadoni pag. 8-9).

I consulenti tecnici del Pm effettuarono l'ispezione dell'impianto Tas il 22 febbraio 2001 (v. cons. tec. Pm ; Sanna, Mininni pag. 41) e rilevarono che talune apparecchiature dell'impianto Tas non risultavano coperte e conseguentemente pressurizzate e precisamente : lo sgrigliatore, tre flottatori (due in esercizio ed un terzo vuoto), la vasca S15 di raccolta delle acque in uscita dai flottatori, la canaletta Parshall per la misura della portata in uscita dai flottatori, un filtro sotto vuoto per la concentrazione e separazione della fase semisolida proveniente dal fondo del serbatoio S10A (v. cons. tec. Pm ; Sanna, Mininni pag. 44).

I consulenti del Pm precisavano che: "la mancata pressurizzazione di questi impianti comporta che le emissioni prodotte dagli stessi…non essendo convogliate, non sono sottoposte ad abbattimento ed in contrasto con quanto prescritto non sono sottoposte a termodistruzione, ma s'immettono in modo diffuso in atmosfera senza alcuna cautela e senza alcuna autorizzazione ai sensi del Dpr 203/88." (v. cons. tec. Pm ; Sanna, Mininni pag. 44).

In relazione all'impianto Tas il decreto assessorile autorizzativo 24/17 prescriveva: "I vapori di idrocarburi contenuti nello sfiato di sovrapressione devono essere inviati a termodistruzione, le apparecchiature che generano emissioni, ed in particolare ispessitori, flottatori, canali di adduzione, apparecchiature di trattamento sloop devono essere coperte. Dovrà altresì essere verificata la fattibilità tecnica dell'eventuale recupero dei gas di sovrapressione e dell'azoto di inertizzazione".

Si osserva dunque che il processo di separazione della fase idrocarburica da quella acquosa in particolare nei flottatori avveniva mediante insufflazione di aria e dunque mediante ossigenazione del liquido, proprio perché i processi di ossidazione favoriscono le reazioni chimiche e dunque la separazione molecolare in questione.

I consulenti della difesa degli imputati hanno precisato in giudizio che la mancata copertura dei flottatori, e comunque di quel 5% dell'intero impianto Tas , corrispondeva ad una precisa scelta della raffineria diretta ad evitare il pericolo di possibili esplosioni proprio conseguenti alla presenza di ossigeno e di sostanze idrocarburiche volatili.

I consulenti del Pm hanno, invece, evidenziato che proprio quel pericolo di esplosioni poteva essere evitato se — pur realizzando la copertura e la conseguente pressurizzazione completa dell'impianto Tas — l'insufflazione nei flottatori fosse avvenuta con gas inertizzante come l'azoto, anziché con l'aria contenente ossigeno.

A seguito delle indicazioni in tal senso avanzate dalla Raffieneria, la Regione il 14 marzo 2002 emanava un nuovo decreto autorizzativo (il n. 119/02) sostitutivo del n. 24/17, il quale relativamente all'impianto Tas prescrive: "I vapori di idrocarburi contenuti nello sfiato di sovrapressione devono essere inviati a termodistruzione, le apparecchiature che generano emissioni, ed in particolare ispessitori, flottatori, canali di adduzione, apparecchiature di trattamento sloop devono essere coperte, in alternativa laddove si presentassero problemi di sicurezza e/o difficoltà tecnologiche che ne impediscano la copertura dovrà essere realizzata un'idonea soluzione progettuale che elimini le sostanze organiche volatili prima delle diverse unità dell'impianto Tas e che le convogli ad un impianto di termodistruzione limitandone pertanto le emissioni in atmosfera. Gli eventuali sfiati liberi provenienti dalle apparecchiature di trattamento sloop (S10A e S10B) devono essere inviati alla termodistruzione. Dovrà altresì essere verificata la fattibilità tecnica dell'eventuale recupero dei gas di sovrapressione e dell'azoto di inertizzazione".

In sostanza l'Assessorato territorio e ambiente della Regione Sicilia ha tenuto conto delle indicazioni fornite dalla raffineria di Gela in ordine al pericolo di esplosioni derivanti dalla copertura completa dell'impianto Tas ed ha così autorizzato la possibilità di una soluzione alternativa alla copertura e pressurizzazione dei flottatori, ispessitori, canali di adduzione e apparecchiature di trattamento sloop. Tale soluzione alternativa — come hanno affermato in sede di esame i consulenti tecnici della difesa degli imputati — è infatti stata realizzata ed è stata resa operativa a partire dal 12 maggio 2005; tale tecnologia consiste nello strippaggio dei reflui acquosi prima dell'immissione nei flottatori rimasti scoperti (v. trascr. udienza 11/7/2005 teste Giacomello pag. 29-30); si tratta — hanno precisato i prof.ri Giacomello e Spadoni — di un progetto attualmente operativo "che comporta un ulteriore strippaggio con azoto in doppio stadio dei composti organici volatili dalla corrente di processo prima del suo flusso nelle apparecchiature scoperte." La società ha realizzato l'opera in conformità all'autorizzazione contenuta nel Drs n. 571 del 19/5/2003 (v. cons. tec. difesa imputati; Giacomello, Spadoni pag. 11).

Ritiene il Giudicante che in ordine all'imputazione di cui al capo A.3 entrambi gli imputati devono essere assolti perché il fatto non sussiste.

Si premette, infatti, che a partire dal 14 marzo 2002 il Drs n. 119 ha fatto cessare l'obbligo assoluto di copertura delle apparecchiature dell'impianto Tas che generano emissioni ed, in particolare, degli ispessitori, flottatori, canali di adduzione e apparecchiature di trattamento sloop, rendendo tale obbligo relativo, prescrivendo in alternativa "un'idonea soluzione progettuale che elimini le sostanze organiche volatili prima delle diverse unità dell'impianto Tas "; soluzione progettuale, quest'ultima, adottata dalla raffineria e di recente realizzata con operatività dal 12/5/2006.

In ordine al periodo anteriore al Drs 119 del 14/3/2002 — e precisamente sotto il vigore dell'obbligo assoluto di copertura degli impianti del Tas che generano emissioni, in base alla prescrizione contenuta nel Da n. 24/17 — deve invece osservarsi che la raffineria di Gela Spa aveva mantenuto scoperti — come sopra spiegato — lo sgrigliatore, tre flottatori (due in esercizio ed un terzo vuoto), la vasca S15 di raccolta delle acque in uscita dai flottatori, la canaletta Parshall per la misura della portata in uscita dai flottatori e un filtro sotto vuoto per la concentrazione e separazione della fase semisolida proveniente dal fondo del serbatoio S10A.

In particolare, l'assenza di copertura ha posto problemi di impatto ambientale soprattutto con riferimento ai flottatori, proprio perché l'insufflazione di aria nelle vasche determinava la maggiore produzione di sostanze idrocarburiche volatili.

Come è stato sopra spiegato, i prof.ri Giacomello e Spadoni hanno sostenuto che il mancato adempimento — parziale — dell'obbligo di copertura era necessitato dall'esigenza di evitare possibili esplosioni. I dott.ri Sanna e Mininni hanno sostenuto che al pericolo di incendio si poteva ovviare con l'insufflazione di gas inertizzante come l'azoto.

Stando così le cose, non può addebitarsi agli imputati alcuna violazione delle regole di cautela che presiedono allo svolgimento dell'attività di raffinazione del petrolio, giuridicamente autorizzata perché socialmente utile; deve invece ritenersi che gli imputati, nella qualità di direttori della raffineria, ciascuno durante il periodo di proprio riferimento ((...) dall'1.11.2000 al 20.12.2001; (...) dal 21.12.2001 al 16.4.2004), hanno adottato e supervisionato l'osservanza da parte dei preposti di tutte le cautele richieste all'agente modello secondo il criterio dell'homo eiusdem professionis et condicionis, per cui nessun addebito a titolo di colpa (e tanto meno di dolo) può essere loro ascritto.

Si precisa, infatti, che essendo stata osservata la prescrizione relativa all'obbligo di copertura dell'impianto Tas per circa il 95% dello stesso, la mancata copertura della restante parte (5%) doveva evidentemente trovare una sua giustificazione in un'esigenza di forza maggiore che, come la difesa degli imputati ha spiegato, era quella di evitare il concreto pericolo di possibili incendi.

A nulla rileva, poi, la circostanza indicata dai consulenti del Pm relativa al fatto che il pericolo di esplosioni poteva essere evitato con l'insufflazione del gas inertizzante, perché detto rilievo, seppure tecnicamente possibile, non consente comunque di formulare un rimprovero di colpevolezza a carico degli imputati, proprio perché nella prospettiva dell'agente — ossia degli imputati — l'inosservanza — parziale — dell'obbligo di copertura risultava una condotta necessitata dal dovere di garantire la sicurezza degli impianti.

La riprova dell'assenza di una volontà colpevole, sia sotto forma di dolo, sia sotto forma di colpa, emerge poi dal fatto che la raffineria effettuò ricorso al Tar avente ad oggetto il decreto assessorile del 20 gennaio 1999 n. 24/17 (v. doc. in atti) proprio in ordine alla fattispecie de qua, avanzando, in buona sostanza, quelle argomentazioni difensive che sono state poi recepite nel Drs n. 119 del 14 marzo 2002 per ovviare al problema.

Si ritiene, pertanto, di aderire alla tesi già espressa in materia dalla giurisprudenza di questo Tribunale in ordine ad altro procedimento che ha affermato la sussistenza, in una fattispecie del tutto analoga, della causa di giustificazione dell'adempimento del dovere di cui all'articolo 51 C.p. , quanto meno nella sua forma putativa (articolo 59 comma 4 C.p. ), "adempimento del dovere…nel duplice senso costituito dall'osservanza sia del precetto generale del neminem laedere contenuto …nell'articolo 2043 c.c., per qualsiasi possibile effetto dannoso che la temuta esplosione avrebbe potuto determinare nei confronti di chiunque, sia dell'obbligo che ai sensi dell'articolo 2087 c.c. grava sull'imputato nella sua qualità di datore di lavoro, per il debito di sicurezza di cui è titolare nei confronti dei lavoratori adibiti all'impianto in questione" (v. sent. Trib. Gela, dott. Cottatellucci n. 180/03 dell'1/4/2003, irrevocabile il 17/5/2003).

Ritenuta, dunque, la sussistenza della causa di giustificazione dell'adempimento del dovere imposto in generale dall'articolo 2043 c.c. del neminem laedere, e, in particolare, dall'articolo 2087 c.c., nonchè — si aggiunge — dall'articolo 4 del Dlgs. n. 626/1994 che impongono al datore di lavoro l'obbligo di garantire la sicurezza dei lavoratori nell'azienda, quantomeno nella sua forma putativa ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 59 comma 4 C.p. , deve conseguentemente ritenersi non integrato il reato contravvenzionale ascritto al capo A.3, nemmeno sotto il profilo materiale, proprio per la ricorrenza dell'esimente che esclude l'antigiuridicità della condotta già sotto il profilo oggettivo: per tali ragioni entrambi gli imputati devono essere assolti in ordine all'imputazione a loro ascritta al capo A.3 perché il fatto non sussiste.

 

Capo A. 4 — Campagne di monitoraggio

L'imputazione in oggetto si riferisce all'osservanza delle prescrizioni relative alle periodiche misurazioni delle emissioni in atmosfera imposte dai decreti autorizzativi.

Dal complesso degli impianti dello stabilimento della raffineria di Gela, adibiti alla raffinazione degli oli minerali, derivano una serie di emissioni convogliate in ventidue camini, di cui uno quadricanne.

La misurazione del complesso di queste emissioni e, quindi, delle sostanze in esse contenute, viene denominata "bolla di raffineria" definita dai consulenti del Pm "un camino virtuale" (v. trascr. udienza 24/2/2005 pag. 127), rappresentando un valore di sintesi delle varie emissioni riferite ai ventidue camini esistenti nello stabilimento.

La misurazione di queste emissioni con riferimento ai vari camini è sempre stata effettuata dalla raffineria in forma non simultanea.

I consulenti del Pm hanno al riguardo osservato che tale modalità di misurazione ossia l'assenza della contemporaneità delle misurazioni in riferimento ai vari camini costituisce un limite intrinseco del valore di bolla risultante dal complesso dei rilevamenti, nel senso che tale valore non può rappresentare un valore reale del complesso delle emissioni in un dato momento, proprio perché la fotografia delle emissioni può essere fornita solo da un rilevamento contemporaneo delle emissioni su tutti i camini.

I consulenti della difesa hanno, all'opposto, spiegato che la misurazione contemporanea delle emissioni risulta di fatto impossibile, anche per l'effetto di una non assoluta contemporaneità del funzionamento dei vari impianti della raffineria nel medesimo momento.

Ritiene il Giudicante che la contemporaneità delle misurazioni delle emissioni su tutti i camini dello stabilimento non sia prescritta da alcuna norma, né dai decreti autorizzativi delle emissioni e che pertanto sotto tale profilo nessun addebito può essere mosso agli imputati: a ben vedere, infatti, l'imputazione de qua alcun riferimento contiene alla contemporaneità delle misurazioni.

Il decreto autorizzativo assesorile n. 24/17 del 20/1/1999 prescriveva: "con cadenza semestrale l'AgipPetroli procederà alla calibrazione delle apparecchiature per la misura in continuo delle emissioni ed effettuerà, con le modalità previste al 4° comma dell'articolo 4 del Dm 12/7/90, la misura delle altre emissioni inquinanti sopraelencate, dandone congruo preavviso alla Provincia Regionale e al Laboratorio di Igiene e Profilassi di Caltanissetta cui dovranno essere comunicati gli esiti. A tal fine si prescrive controllo bimestrale per il citato punto 317/F1, quadrimestrale per i camini della Cte e semestrale per gli altri impianti".

Sul punto nulla ha innovato il Drs n. 119 del 14 marzo 2002, che ha così mantenuto ferme le relative prescrizioni.

Il riferimento contenuto nell'autorizzazione all'articolo 4 comma 4 del Dm 12/7/90, infatti — a parte il rilievo che detta norma si riferisce alle sole misure in continuo delle emissioni — ha riguardo soltanto all'obbligo per cui tali misurazioni devono essere fatte "nell'arco dei dieci giorni almeno due volte".

Il comma 4 dell'articolo 4 del Dm 12/7/90 non fa, dunque, nessun riferimento alla rilevazione contemporanea delle emissioni su tutti i camini, per i rilevamenti di bolla di raffineria, ragione per cui sotto tale profilo alcun addebito può essere mosso agli imputati.

Il riferimento alla contemporaneità delle misurazioni contenuto nel comma 3 dell'articolo 4 del Dm 12/7/90, infatti, si riferisce a diversa ipotesi ed è comunque prescritta come mera possibilità; in ogni caso i decreti autorizzativi 24/17 e 119 del 2002 rinviano al comma 4 dell'articolo 4 del Dm cit. e non al comma 3 di detto articolo.

I consulenti del Pm in ordine al monitoraggio delle emissioni hanno analizzato, in sede di indagini, la documentazione inviata al Laboratorio di Igiene e Profilassi di Caltanissetta con riferimento ai campionamenti effettuati dal 24/4/99 al gennaio/febbraio 2001 (v. consul. tecnica pag. 75).

Dall'analisi della relativa documentazione, i consulenti dott.ri Sanna e Mininni hanno rilevato che i monitoraggi, nel periodo di riferimento sopra indicato, non sono stati effettuati con la frequenza e la periodicità previste dal Da 24/17.

In particolare, è risultato che "l'impianto di alchilazione — che nel Da cit. è denominato "punto 317/F1" — è stato sottoposto a monitoraggio per quattro volte nel 1999 e per cinque volte nel 2000, e ad una sola campagna nel 2001. Mentre quest'impianto doveva essere sottoposto ad un controllo bimestrale e quindi le campagne dovevano essere in numero pari a sei ogni anno solare. Le indagini complete che hanno interessato tutti i camini della raffineria sono state pari ad una nel 1999 e a due nel 2000. Anche in questo caso si riscontra una minore frequenza di campionamento nel 1999 rispetto a quanto richiesto dal Da 24/17 (indagini semestrali). La centrale termica — che nel Da cit. è denominata Cte — è soggetta a monitoraggio quadrimestrale e quindi in questo caso le campagne dovevano essere in numero pari a tre ogni anno. In questo caso è stato sufficientemente frequente essendo state condotte tre campagne nel 1999 e quattro nel 2000, mentre risulta una sola campagna nel 2001." (v. cons. tec. Pm pag. 76).

Le valutazioni integrative in ordine alle campagne di monitoraggio effettuate dai consulenti del Pm acquisite agli atti (v. udienza 24/1/2006) — in relazione alla documentazione acquisita all'udienza dell'11/7/2005 a seguito della produzione documentale effettuata dalla difesa degli imputati (v. esame dott.ssa Frassica, udienza del 12/5/2005) — hanno ribadito un mancato rispetto delle prescrizioni relative alle campagne di monitoraggio anche con riferimento all'analisi della documentazione più recente prodotta dalla difesa degli imputati all'udienza del 12/5/2005 ed acquisita all'udienza dell'11/7/2005.

Il teste della difesa degli imputati, dott.ssa Frassica, responsabile del settore ecologia ed igiene industriale della raffineria di Gela dal gennaio del 2002, la quale ha il compito di comunicare agli organi di controllo i reports relativi alle misurazioni delle emissioni, ha affermato in giudizio l'avvenuto rispetto delle prescrizioni relative alle campagne di monitoraggio contenute nel Drs 119/2002 (che ha confermato le prescrizioni contenute sul punto nel Da 24/17) dal momento della sua assunzione presso la raffineria ed anche nel periodo anteriore.

Tali considerazioni sono state fatte proprie anche dai consulenti della difesa prof.ri Spadoni e Giacomello.

La difesa degli imputati ha, altresì, prodotto il verbale di sopralluogo del 6 e 9 febbraio 2004 dei tecnici della Provincia settore territorio e ambiente, allegato alla consulenza della difesa degli imputati (v. all. 9 cons. tecn. Spadoni — Giacomello), attestante il rispetto delle prescrizioni relative al monitoraggio delle emissioni con riferimento al periodo dal 2002 al 2004.

Trattasi di certificazione proveniente dall'organo di controllo — attestante il rispetto delle prescrizioni relative alle campagne di monitoraggio delle emissioni contenute nel Drs 119 del 19/4/2002 e nel Drgs n. 579 del 19/5/2003 — rilasciata sulla base dell'esame delle comunicazioni dei reports di analisi effettuate dalla raffineria a partire dal 21/5/2002 sino al giorno del sopralluogo.

Ritiene il Giudicante che l'analisi dell'istruttoria dibattimentale ha consentito di appurare l'integrazione del reato con riferimento all'anno 2000. Con riferimento a parte di detto periodo ha assunto il ruolo di direttore della raffineria il (...) (dall'1/11/2000 al 21/12/2001). Il decorso del termine prescrizionale di quattro anni e mezzo a partire dalla fine del 2000 consente di dichiarare l'avvenuta estinzione del reato di cui al capo A.4 per prescrizione massima nei confronti del (...). Il termine triennale al momento dell'emissione del decreto di citazione diretta in giudizio del 2-4 settembre 2003 non risultava, peraltro, ancora compiuto ai fini della prescrizione ordinaria. Il (...), invece, direttore della raffineria nel periodo successivo e fino al 2004, deve essere assolto dall'imputazione di cui al capo A.4 per non aver commesso il fatto.

Dagli accertamenti compiuti dai consulenti del Pm, infatti, sono emerse delle violazioni delle prescrizioni contenute nel Da 24/17 atteso che con riferimento all'impianto di alchilazione (punto 317/F1) il controllo bimestrale non è risultato rispettato nel 1999 e nel 2000; relativamente all'anno 2001 la documentazione analizzata, in sede di indagini preliminari, dai consulenti si ferma al gennaio/febbraio 2001 e, dunque, non si riferisce all'intero anno solare; pertanto, nessuna prova sussiste in relazione a detta violazione per l'anno 2001.

Con riferimento al monitoraggio delle emissioni della Cte le prescrizioni risultano osservate con riferimento all'anno 1999 e 2000; per l'anno 2001 risulta ai consulenti del Pm una sola rilevazione, ma anche in questo caso la documentazione analizzata dai consulenti si ferma al gennaio/febbraio 2001 e dunque non si riferisce all'intero anno solare; pertanto, nessuna prova sussiste in relazione a detta violazione né per gli anni ‘99/2000, né per l'anno 2001.

Per gli altri impianti il Da 24/17 prescriveva un monitoraggio semestrale e l'analisi della documentazione analizzata dai consulenti del Pm ha consentito di appurare il rispetto della prescrizione per l'anno 2000 (due nell'anno), ma non per l'anno 1999 (solo una rilevazione; v. al riguardo anche trascr. udienza 24/2/2005 pagg. 124-125).

Peraltro — si osserva— a parte il rilievo che il Da 24/17 è del gennaio del 1999 e non di aprile come ha dichiarato la dott.ssa Frassica in sede di esame (v. trascr. udienza 12/5/2005 pag. 16), nel 1999 (anno in cui pure è risultato non osservato il controllo bimestrale delle emissioni del punto 317/F1), non aveva ancora assunto il ruolo di direttore il (...); pertanto, l'addebito — quantomeno a titolo di colpa — nei suoi confronti deve essere limitato soltanto all'anno 2000 con riferimento al monitoraggio bimestrale delle emissioni dell'impianto di alchilazione, oggi peraltro estinto per decorso del termine massimo di prescrizione.

Le valutazioni integrative in ordine alle campagne di monitoraggio effettuate dai consulenti del Pm acquisite agli atti (v. udienza 24/1/2006) — in relazione alla documentazione acquisita all'udienza dell'11/7/2005, a seguito della produzione effettuata dalla difesa degli imputati (v. esame dott.ssa Frassica, udienza del 12/5/2005), che hanno ribadito un mancato rispetto delle prescrizioni relative alle campagne di monitoraggio anche sulla base dell'analisi della documentazione più recente prodotta dalla difesa degli imputati all'udienza del 12/5/2005 ed acquisita all'udienza dell'11/7/2005 — non possono invece essere condivise da questo Giudice atteso che dette conclusioni dei dott.ri Sanna e Mininni sono riferite ad un conteggio globale dei monitoraggi prescritti a partire dall'anno '99 sino all'inizio del 2004.

In altre parole, in detta consulenza integrativa, si effettua un conteggio globale dei monitoraggi che a partire dall'anno '99 si sarebbero dovuti effettuare e di quelli che in effetti sono stati effettuati, senza distinzione per anni di riferimento e, dunque, anche tenendo conto dei dati riferiti all'anno 1999 e 2000: ne deriva che dette conclusioni sono generiche e non consentono di distinguere in relazione agli anni di riferimento le varie misurazioni delle emissioni; per tali motivi non possono essere condivise se non per la parte in cui ribadiscano nella sostanza le conclusioni già formulate sul punto nella prima consulenza.

In ordine al periodo successivo all'anno 2000, la certificazione dell'organo di controllo in atti sopra richiamata del febbraio 2004 e riferita al periodo 2002-2004 (v. all. 9 cons. tec. dif. imp., Spadoni— Giacomello), la testimonianza resa dalla dott.ssa Frassica e la documentazione in atti rappresentante il quadro riepilogativo dei reports di analisi delle emissioni consentono di ritenere osservate le prescrizioni relative al monitoraggio delle emissioni; di talché, dal 2001 in poi, nessun addebito in ordine all'imputazione di cui al capo A.4 può ritenersi provato a carico degli imputati.

 

Capo B) articolo 51 comma 2 Dlgs n. 22/1997

Premessa: la nozione di rifiuto e l'ambito di applicazione del c.d. decreto Ronchi.

Il capo B) dell'imputazione si fonda su due assunti: 1) che i "reflui" (capi b.1, b.3) o "correnti" (capo b.4) gassose rappresentino rifiuti gassosi ricadenti nell'ambito di applicazione del Dlgs n. 22/97 sui rifiuti; 2) che la combustione dei reflui (o correnti) gassosi costituisca — nei casi considerati — attività di incenerimento di rifiuti ai sensi del Dm n. 503/1997.

Il primo punto verrà trattato in questo paragrafo, il secondo verrà affrontato nei paragrafi che seguono in relazione agli impianti di volta in volta considerati.

Il Dlgs 5 febbraio 1997, n. 22 costituisce attuazione delle direttive comunitarie 91/156/Cee sui rifiuti, 91/689/Cee sui rifiuti pericolosi e 94/62/Ce sugli imballaggi e rifiuti di imballaggio.

L'articolo 1 del decreto stabilisce il campo di applicazione della normativa in oggetto stabilendo: "il presente decreto disciplina la gestione dei rifiuti, dei rifiuti pericolosi, degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggi, fatte salve disposizioni specifiche particolari o complementari, conformi ai principi del presente decreto, adottate in attuazione di direttive comunitarie che disciplinano la gestione di determinate categorie di rifiuti…". Dal primo comma dell'articolo 1 del decreto già si evince la natura della normativa in oggetto come disciplina quadro relativa alla gestione dei rifiuti.

L'articolo 6 del decreto rubricato "definizioni" stabilisce: "ai fini del presente decreto si intende per: a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi; b) produttore: la persona la cui attività ha prodotto rifiuti e la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento o di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione dei rifiuti; c) detentore: il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene; d) gestione: la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni, nonché il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura; omissis …g) smaltimento: le operazioni previste nell'allegato B; omissis…".

L'allegato B del decreto elenca le operazioni di smaltimento individuando — tra l'altro — il trattamento fisico-chimico anche attraverso incenerimento (v. all. B Dlgs 22/97).

L'articolo 8 del decreto indica le esclusioni dal campo di applicazione del decreto, stabilendo: "sono esclusi dal campo di applicazione del presente decreto gli effluenti gassosi emessi nell'atmosfera, nonché, in quanto disciplinati da specifiche disposizioni di legge:..omissis …e) le acque di scarico, esclusi i rifiuti allo stato liquido;…omissis".

L'articolo 8 del decreto cit. stabilendo le esclusioni dal campo di applicazione del decreto medesimo rinvia evidentemente per gli effluenti gassosi emessi nell'atmosfera alla disciplina di settore rappresentata dal Dpr 24 maggio 1988, n. 203 in materia di inquinamento atmosferico (di attuazione delle direttive Cee numeri 80/779, 82/884, 84/360 e 85/203 concernenti norme in materia di qualità dell'aria, relativamente a specifici agenti inquinanti, e di inquinamento prodotto dagli impianti industriali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 16 aprile 1987, n. 183) e per le acque di scarico, esclusi i rifiuti allo stato liquido, alla legge n. 319/1976 oggi abrogata e sostituita dal Dlgs n. 152/1999 sulla tutela delle acque dall'inquinamento (disposizioni sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/Cee concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/Cee relativa alla protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole).

I consulenti tecnici della difesa degli imputati sulla base del disposto di cui all'articolo 8 comma 1 del Dlgs 22/97 hanno fermamente ritenuto che gli effluenti gassosi, in quanto aeriformi, siano esclusi dall'ambito di applicazione del decreto Ronchi e che pertanto nessuna autorizzazione all'attività di combustione di detti gas sia necessaria ai sensi del Dlgs 22/97, proprio perché già sussistente in virtù dell'autorizzazione emessa dalla Regione ai sensi del Dpr 203/88 e rappresentata dal Da 24/17 e poi dal Drs 119 del 19/4/2002.; in altre parole hanno sostenuto la natura solida o liquida dei rifiuti e l'esclusione totale degli aeriformi dal campo di applicazione del Dlgs 22/97, in quanto ricadenti nella normativa specifica di cui al Dpr 203/88 (v. cons. tec. dif. Giacomello-Spadoni pagg. 31-32).

Ritiene il Giudicante che l'assunto difensivo debba essere disatteso per le ragioni che seguono.

Alla luce della letteratura esistente in materia, delle pronunce della Corte di Giustizia europea e della Corte di Cassazione, nonché all'esito delle deduzioni formulate in giudizio dai consulenti tecnici della difesa degli imputati e del Pm — che hanno sostenuto tesi contrapposte — si esprimono in merito all'ambito di applicabilità del Dlgs n. 22/97 le seguenti conclusioni.

L'articolo 6 del Dlgs 22/97 fornendo la nozione di rifiuto ai fini del decreto medesimo stabilisce — come sopra visto — che per rifiuto deve intendersi "qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi" così ripetendo la lettera della norma di cui all'articolo 1 della direttiva del Consiglio delle Comunità europee del 18 marzo 1991 n. 156 di modifica della direttiva 75/442/Cee relativa ai rifiuti che prevede: "ai sensi della presente direttiva, si intende per: a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi".

Analogamente l'art 8 del decreto Ronchi ricalca l'articolo 2 della direttiva 91/156 Cee che stabilisce: "sono esclusi dal campo di applicazione della presente direttiva: a) gli effluenti gassosi emessi nell'atmosfera; ….omissis…le acque di scarico, esclusi i rifiuti allo stato liquido"

Sia la normativa comunitaria, sia la normativa interna di attuazione, dunque, forniscono una nozione di rifiuto che fa riferimento a qualsiasi sostanza od oggetto che prescinde dallo stato fisico della materia: nel concetto di sostanza vi rientra, appunto, qualsiasi sostanza allo stato liquido o gassoso e nel concetto di oggetto qualsiasi sostanza allo stato solido; dunque, già prima facie, la nozione di rifiuto resa dal legislatore nazionale e comunitario non esclude a priori dall'ambito della categoria dei rifiuti le sostanze allo stato gassoso, dovendosi così intendere per rifiuto una qualsiasi materia allo stato gassoso, liquido o solido purché il detentore se ne disfi o abbia deciso di disfarsene o abbia l'obbligo di disfarsene.

Come si è visto, dunque, il decreto Ronchi e la direttiva comunitaria 91/156 non escludono la sussistenza di un rifiuto allo stato gassoso ma lo distinguono dalla nozione di effluente gassoso di cui all'articolo 8 del Dlgs 22/97 e all'articolo 2 della direttiva 91/156 Cee. Gli effluenti gassosi sono, infatti, emissioni in atmosfera regolate dal Dpr n. 203/88.

Il nocciolo della questione è il seguente: un gas in natura è e resta un gas ossia una materia allo stato aeriforme; orbene quel gas, ai fini normativi di tutela ambientale, può assumere la natura giuridica sia di rifiuto gassoso — assoggettato in quanto tale alla disciplina del Dlgs 22/97 — sia di effluente gassoso che si immette in atmosfera — assoggettato in quanto tale alla disciplina del Dpr 203/88 — a seconda della fase del processo produttivo industriale in cui quel gas venga considerato.

Se l'aeriforme subisce un trattamento e quindi una gestione ai fini dello smaltimento — quale appunto la combustione, che rientra tra le attività di gestione e smaltimento del rifiuto ai sensi del Dlgs 22/97 (v. articolo 6 comma 1 lett. d) e g) e allegato B del Dlgs n. 22/97) — allora esso deve qualificarsi giuridicamente rifiuto e l'attività di gestione ai fini del suo smaltimento dovrà essere autorizzata ai sensi dell'articolo 28 del Dlgs n. 22/97; se l'aeriforme — che in ipotesi può anche essere quello stesso rifiuto precedentemente trattato — deve essere immesso direttamente in atmosfera, allora deve qualificarsi giuridicamente come effluente gassoso e la sua immissione dovrà essere autorizzata ai sensi del Dpr n. 203/1988 e la sua concentrazione dovrà essere conforme ai limiti fissati dal Dpr 203/1988.

La situazione che si viene a determinare è perciò del tutto analoga a quella relativa alle acque di scarico, le quali sono assoggettate alla disciplina del Dlgs n. 152/1999 in quanto immesse direttamente tramite condotta nel corpo ricettore, come si evince dall'articolo 2 del Dlgs n. 152/1999 lettera cc) che definisce le "acque di scarico: tutte le acque reflue provenienti da uno scarico" e lettera bb) che definisce "scarico: qualsiasi immissione diretta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti dall'articolo 40" (l'articolo 40 si riferisce alle dighe). Tutti gli scarichi devono essere previamente autorizzati (articolo 45 comma 1 Dlgs n. 152/1999), compresi gli scarichi delle acque reflue industriali (articolo 46 Dlgs n. 152/1999).

Quando le acque sono sottoposte ad un trattamento (ad esempio di evaporazione, stoccaggio in un depuratore, ecc.) al fine di disfarsene, allora devono essere giuridicamente qualificate rifiuti liquidi, come si evince dalla già citata norma di cui all'articolo 8 lett. e) del Dlgs n. 22/97 e dalla norma espressa dall'articolo 14 comma 2 del Dlgs n. 22/97 che fanno espresso riferimento ai rifiuti allo stato liquido.

Ne deriva che uno stesso liquido in un ciclo industriale può assumere sia la qualità giuridica di rifiuto — e come tale sarà assoggettato alla disciplina del Dlgs n. 22/97 — se ed in quanto sia sottoposto ad un trattamento ai fini del successivo smaltimento ossia ad una gestione prima che il detentore se ne disfi, sia la qualità giuridica di acqua di scarico — e come tale sarà assoggettato alla disciplina del d. lgs. vo n. 152/1999 — se ed in quanto sia direttamente riversato nel corpo ricettore.

Tali deduzioni ermeneutiche oltre ad essere conformi alla lettera ed allo spirito della normativa esistente in materia, trovano riscontro — a parte la letteratura esistente sul punto — nell'interpretazione fornita dalla Suprema Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale sia in materia di acque che di gas.

Sotto il primo profilo, infatti, si menzionano la sentenza n. 12310/95 delle Sezioni Unite della Cassazione penale e la sentenza della Corte Costituzionale n. 173 del 20 maggio 1998 che hanno chiaramente delineato in materia di acque il discrimen tra la normativa sugli scarichi e la normativa sui rifiuti liquidi, proprio secondo il criterio sopra illustrato.

Analogamente in materia di aeriformi, fondamentale è stato il principio espresso dalla sentenza della Cassazione penale Sezione III, 19 marzo 1999, n. 494 (Pres. Avitabile— Est. Postiglione— Pm Ranieri, conf.— ric. Lago) secondo cui: "la normativa, sia nazionale che comunitaria, in tema di inquinamento atmosferico completa, infatti, e non assorbe quella sui rifiuti ma deve coesistere ed integrarsi" (cfr. sent. cit.). "Allo stesso modo le Direttive Comunitarie sull'inquinamento atmosferico (compresa quella n. 67/94/Ce ) non hanno comportato il venir meno delle Direttive sui rifiuti (91/156/Cee e 91/689/Cee)" (cfr. sent. cit.). Si precisa che la direttiva 67/94 Ce riguarda l'incenerimento dei rifiuti pericolosi per i profili attinenti alle emissioni in atmosfera, mentre le direttive — come sopra indicato — 91/156/Ce e 91/689/Cee riguardano i rifiuti e i rifiuti pericolosi in attuazione delle quali è stato emanato il c.d. decreto Ronchi.

In altre parole, la Suprema Corte indica il principio ermeneutico — a cui questo Giudice, come sopra illustrato, si è conformato — secondo il quale il legislatore comunitario e il legislatore nazionale hanno inteso realizzare una "tutela integrata dell'ambiente" (cfr. sent. cit.) ai fini di una "protezione ancora maggiore" del medesimo e pertanto un impianto industriale deve, per poter funzionare, da un lato chiedere ed ottenere le autorizzazioni necessarie sia per le emissioni in atmosfera — e, sotto tale profilo, le concentrazioni degli inquinanti dovranno essere conformi ai limiti indicati dal Dpr n. 203/1988 -, dall'altro deve chiedere ed ottenere le autorizzazioni necessarie per il trattamento dei rifiuti, anche gassosi — e sotto tale profilo l'autorizzazione dovrà individuare le condizioni e le prescrizioni necessarie per garantire l'attuazione dei principi di cui all'articolo 2 del Dlgs n. 22/97 (v. articolo 28 comma 1 Dlgs n. 22/97).

La Suprema Corte nella sentenza più volte citata, infatti, così afferma: "un impianto non può funzionare anche se rispetta i limiti di emissione, se non è anche in regola con la normativa tecnica specifica per i rifiuti" e richiama, altresì, un precedente conforme che riguardava un caso analogo: "la sentenza Sezione III, del 7 dicembre 1992, n. 2208, imp. Fava, Rossellini, Schena…".

L'opzione ermeneutica condivisa da questo Giudicante sulla sussistenza di rifiuti gassosi distinti dalle emissioni in atmosfera, peraltro, oltre a trovare conforto nell'autorevole orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, vanta altresì precedenti nella giurisprudenza di merito, come la sentenza del 10/11/2004 n. 262/04 del Tribunale in composizione monocratica di Barcellona P.G.— sezione distaccata di Milazzo.

A livello comunitario, ulteriormente, la tesi qui condivisa vanta autorevole sostegno nelle pronunce espresse in materia dalla Corte di Giustizia europea. Si veda al riguardo la sentenza di seguito riportata.

Corte di Giustizia Ce , Sesta Sezione 18 aprile 2002, proc. C-9/00, Palin Granit Oy — "L'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine "disfarsi" (sentenza 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag. I.7411, punto 26).

Il verbo "disfarsi" deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442 che, ai sensi del terzo considerando, è la tutela della salute umana e dell'ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito dei rifiuti, ma anche alla luce dell'articolo 174, n. 2, Ce , secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell'azione preventiva. Ne consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo (v. sentenza 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag. I-4475, punti da 36 a 40). La questione di stabilire se una determinata sostanza sia un rifiuto deve essere risolta alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva 75/442 ed in modo da non pregiudicarne l'efficacia (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punti 73, 88 e 97)….omissis…Al punto 87 della citata sentenza ARCO Chemie Nederland e a., la Corte ha considerato come indizio del fatto che il detentore della sostanza se ne disfa ovvero ha deciso o ha l'obbligo di disfarsene ai sensi dell'articolo 1, lett. a), della direttiva 75/442, il fatto che la sostanza sia un residuo di produzione la cui composizione non è idonea all'utilizzo che ne viene fatto ovvero che tale utilizzo debba avvenire in condizioni particolari di prudenza a causa della pericolosità per l'ambiente della sua composizione".

In nessun modo le pronunce della Corte di Giustizia europea hanno escluso a priori l'esistenza di rifiuti gassosi, anzi, hanno sottolineato, ai fini di una tutela integrata dell'ambiente, la necessità di una interpretazione estensiva della nozione di rifiuto, dovendosi da una parte, fare riferimento al complesso delle circostanze del caso concreto, e dall'altra, tener presente il criterio per il quale di quella sostanza (senza distinzione dello stato fisico della materia come solido, liquido o gassoso) il detentore se ne disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsene; anzi, persino il riciclo, il recupero o il riutilizzo della sostanza non esclude che la sostanza medesima debba essere qualificata come un rifiuto (v. Corte di Giustizia Ce , Sesta Sezione 18 aprile 2002, proc. C-9/00, cit; sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95, Tombesi e altri (Racc. pag. I-3561, punto 52); ulteriormente, "il fatto che una sostanza sia un sottoprodotto (un residuo) di un processo di produzione imperniato sull'ottenimento di un altro prodotto costituisce un'indicazione della possibilità che si tratti di un rifiuto ai sensi della direttiva… Ciò si verifica in particolare se la sostanza utilizzata è un residuo di produzione, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale al fine di utilizzarlo come combustibile…Una sostanza perderebbe le caratteristiche di rifiuto unicamente se sia stata oggetto di un'operazione di recupero completo ai sensi dell'allegato II B della direttiva, cioè se possa essere trattata nello stesso modo di una materia prima ovvero, come nel caso di specie, se il potenziale materiale o energetico del rifiuto è stato utilizzato nella combustione." (cfr. Corte di Giustizia Ce . 15 giugno 2000, proc. riuniti c-418/97 e c-419/97, Arco).

L'opzione ermeneutica condivisa da questo Giudicante, si aggiunga, non risulta confutata dalla recente normativa dettata dal Dlgs 11 maggio 2005, n. 133 di attuazione della direttiva 2000/76/Ce , in materia di incenerimento di rifiuti. L'articolo 1 comma 1 di detto decreto stabilisce: "il presente decreto si applica agli impianti di incenerimento e di coincenerimento dei rifiuti e stabilisce le misure e le procedure finalizzate a prevenire e ridurre per quanto possibile gli effetti negativi dell'incenerimento e del coincenerimento dei rifiuti sull'ambiente, in particolare l'inquinamento atmosferico, del suolo, delle acque superficiali e sotterranee, nonché i rischi per la salute umana che ne derivano".

L'articolo 2 del decreto cit. nel precisare le definizioni della normativa medesima stabilisce: "ai fini del presente decreto si intende per: a) rifiuto: qualsiasi rifiuto solido o liquido come definito dall'articolo 6, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22…omissis".

La direttiva 2000/76/Ce — di cui il d. lgs. vo n. 133/2005 costituisce attuazione — stabilisce all'articolo 1 che: "la presente direttiva ha lo scopo di evitare o di limitare per quanto praticabile gli effetti negativi dell'incenerimento e del coincenerimento dei rifiuti sull'ambiente, in particolare l'inquinamento dovuto alle emissioni in atmosfera, nel suolo, nelle acque superficiali e sotterranee nonché i rischi per la salute umana che ne derivano. Tale scopo è raggiunto mediante rigorose condizioni di esercizio e prescrizioni tecniche, nonché istituendo valori limite di emissione per gli impianti di incenerimento e di coincenerimento dei rifiuti nella Comunità, soddisfacendo altresì le prescrizioni della direttiva 75/442/Cee.".

L'articolo 3 della direttiva 2000/76/Ce poi stabilisce: "ai fini della presente direttiva si intende per: 1) "rifiuto": qualsiasi rifiuto solido o liquido quale definito dall'articolo 1 lettera a) della direttiva 75/442/Cee…omissis".

La normativa nazionale e comunitaria testé citata ha chiaramente la natura di normativa di settore ossia di normativa speciale rispetto alla disciplina generale in materia di rifiuti, rispettivamente, sia nazionale (d. lgs. vo n. 22/97), che comunitaria (75/442/Cee).

Trattandosi di disciplina speciale riguardante solo l'incenerimento dei rifiuti solidi e liquidi, sul presupposto di un potenziale maggiormente inquinante degli stessi rispetto a quelli aeriformi, la stessa impone prescrizioni tecniche e condizioni di esercizio degli impianti di incenerimento di tale tipologia di rifiuti più rigorose, proprio ai fini di una maggiore protezione dell'ambiente e della salute umana.

Trattandosi di normativa di settore non incide in alcun modo sulla disciplina generale nazionale e comunitaria, che rimane applicabile in tutti gli altri casi. Ne deriva necessariamente, in applicazione dei criteri ermeneutici generali appartenenti alla teoria generale del diritto, che in alcun modo può arguirsi da detta normativa di settore la conclusione della natura necessariamente liquida o solida dei rifiuti, come sostenuto dalla difesa degli imputati. Siffatta conclusione deve, infatti, ritenersi viziata sul piano logico-giuridico proprio perché non può trarsi una conclusione generale da una normativa speciale (destinata a regolare casi particolari), per di più in contrasto con la disciplina generale: infatti, lex specialis derogat legi generali per i casi particolari da essa previsti, ma non la abroga, restando la normativa generale applicabile in tutti gli altri casi, sul presupposto che si ha norma speciale quando presenta tutti gli elementi di una norma generale, con almeno un elemento in più.

Sulla base di tutte le argomentazioni sin qui illustrate si conclude, quindi, sulla esistenza giuridica dei rifiuti gassosi assoggettati in quanto tali alla disciplina del Dlgs n. 22/97, distinti dagli effluenti gassosi immessi direttamente in atmosfera, assoggettati in quanto tali alla disciplina del Dpr n. 203/1988; trattasi, infatti, di normative tra di loro parallele applicabili in via integrativa, in vista dell'esigenza, sottolineata sia dal legislatore nazionale e comunitario, sia dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia europea, di una maggiore protezione dell'ambiente e della salute umana.

 

Capo B. 1 — Impianto Cracking catalitico

L'impianto Cracking catalitico ha la funzione di decomporre gli idrocarburi più pesanti ossia ad alto peso molecolare in idrocarburi più leggeri con peso molecolare inferiore. L'apparato principale dell'impianto è rappresentato da un reattore catalitico ossia che utilizza un catalizzatore caldo in un letto fluidizzato che appunto favorisce le reazioni chimiche.

Il catalizzatore nel processo chimico di scissione dei legami molecolari degli idrocarburi pesanti perde la propria capacità catalizzatrice perché la sua superficie risulta ricoperta da piccoli quantitativi di coke che si producono durante il processo di cracking: per tale motivo il catalizzatore deve essere rigenerato ossia ripulito dai residui del cracking.

L'impianto di cracking catalitico rappresenta la soluzione progettuale più diffusa nelle raffinerie del mondo. Nella raffineria di Gela la rigenerazione del catalizzatore "avviene in continuo inviando la corrente di catalizzatore ad un ulteriore reattore dove, a seguito di combustione, si rigenera il catalizzatore producendo contemporaneamente un gas ricco non solo di CO2 (anidride carbonica o biossido di carbonio) ma anche di CO— ossido di carbonio" (v. cons. tec. difesa imp. — Giacomello, Spadoni— pag. 40).

"Il catalizzatore esausto — spiegano i consulenti tecnici del Pm — è convogliato in un reattore di combustione a letto fluidizzato, dove avviene la rigenerazione a 740°C ed è quindi rinviato al reattore di cracking" (v. cons. tec. Pm — Sanna, Mininni— pag. 21).

I consulenti del Pm effettuarono l'ispezione dell'impianto Cracking catalitico della raffineria di Gela il 27 marzo 2001.

Ritiene questo Giudice che l'imputazione di cui al capo B1) dell'imputazione risulti provata a carico di entrambi gli imputati a seguito dell'istruttoria dibattimentale per le ragioni di seguito spiegate.

La rigenerazione del catalizzatore produce un refluo gassoso ricco di ossido di carbonio (CO). Secondo la difesa degli imputati, tuttavia, tale refluo oltre ad essere ricco di CO è anche ricco di biossido di carbonio (CO2) (v. cons. tec. difesa imp. — Giacomello, Spadoni— pag. 40).

Trattasi di una "corrente gassosa derivante dal primo stadio dell'impianto di rigenerazione del catalizzatore" (v. cons. tec. difesa imp. — Giacomello, Spadoni— pag. 41) che deve essere trattata nella caldaia CO boiler; "la caldaia CO boiler non costituisce una parte integrante del circuito produttivo dell'impianto di cracking catalitico ma ha la finalità di trattare il refluo gassoso, ricco di CO, derivante dalla rigenerazione del catalizzatore" (v. cons. tec. Pm — Sanna, Mininni— pag. 23).

Secondo i consulenti della difesa degli imputati, invece, "gli impianti di rigenerazione dei catalizzatori fanno parte integrante dei processi di raffinazione ed il CO boiler rappresenta uno stadio del processo deputato al completamento della ossidazione degli effluenti a CO2" (v. cons. tec. difesa imp. — Giacomello, Spadoni— pag. 41).

I consulenti della difesa, quindi, aggiungono che il trattamento di questo refluo gassoso derivante dalla rigenerazione del catalizzatore nel CO boiler è una postcombustione imposta dallo stesso Dm 12 luglio 1990, allegato 3/B Sezione D punto 4 che prevede che: "i gas derivanti dai processi, dalla rigenerazione dei catalizzatori, dalle ispezioni, dalle operazioni di pulizia, devono essere convogliati alla postcombustione, quando ciò si renda necessario". I consulenti della difesa, quindi, concludono che "il CO boiler può essere anche inteso come un sistema di postcombustione che converte il CO (emissione inquinante) mediante ossidazione per via termica a CO2 (gas innocuo)" (v. cons. tec. difesa imp. — Giacomello, Spadoni— pag. 41).

Preliminarmente occorre chiarire che in ordine alla composizione chimica del refluo gassoso derivante dalla rigenerazione del catalizzatore ossia in ordine alla asserita presenza nello stesso — da parte della difesa — di anidride carbonica oltre ad ossido di carbonio, la questione è ininfluente ai fini giuridici.

Certamente, si osserva, è possibile che nel momento della combustione in presenza di ossigeno, in sede di rigenerazione del catalizzatore esausto, il carbonio presente su quest'ultimo possa legarsi con l'ossigeno creando la molecola del biossido di carbonio; tuttavia, ciò che è certo — e non controverso — è che comunque in sede di rigenerazione del catalizzatore si produce ossido di carbonio, altamente inquinante, che deve necessariamente, prima di essere immesso in atmosfera, essere trasformato in anidride carbonica, sostanza non inquinante prodotta anche dall'uomo nell'attività respiratoria e dalle piante nel processo di fotosintesi.

Nella caldaia del CO boiler, dunque, viene effettuato un trattamento termico dell'ossido di carbonio ai fini dell'ossidazione e trasformazione in biossido di carbonio.

Il trattamento termico del CO nella caldaia del CO boiler viene definito dai consulenti del Pm combustione.

I consulenti della difesa, invece, lo definiscono postcombustione, sul presupposto che in effetti tale combustione è successiva ad altra precedente effettuata per altro fine ossia per la scissione delle catene degli idrocarburi pesanti.

La difesa degli imputati, peraltro, ha ritenuto che tale processo di postcombustione non dovesse essere affatto specificamente autorizzato perché imposto dal Dm 12 luglio 1990, indicante le linee guida per il contenimento delle emissioni degli impianti industriali e la fissazione dei valori minimi di emissione.

Si ritiene che, ai fini giuridici, definire il trattamento termico del CO, nella caldaia del CO boiler, combustione o postcombustione è ininfluente, perché comunque si è in presenza di un trattamento del refluo di combustione che rientra perfettamente nella normativa generale del Dlgs n. 22/97 come una forma di gestione, nella specie di smaltimento mediante combustione, di un rifiuto gassoso che doveva essere previamente autorizzato ai sensi dell'articolo 28 del Dlgs n. 22/97.

I consulenti del Pm nessuna autorizzazione al riguardo hanno rinvenuto al momento dei loro accertamenti; peraltro, la questione dell'assenza di detta autorizzazione è risultata non controversa in giudizio.

L'asserita inutilità di detta autorizzazione da parte della difesa degli imputati, sul presupposto, fra l'altro, che le stesse linee guida del Dm 12 luglio 1990 all'allegato B punto D.4 impongono che i gas derivanti dalla rigenerazione dei catalizzatori siano convogliati alla postcombustione, appare ad avviso di questo Giudice giuridicamente infondata.

Si osserva, infatti, che è vero che il Dm 12 luglio 1990 stabilisce la testé detta prescrizione, tuttavia occorre osservare che tali linee guida, emanate per il contenimento delle emissioni degli impianti industriali e la fissazione dei valori minimi di emissione — a parte la natura spesso non self-executing, delle norme del Dm cit. — stabiliscono delle prescrizioni — ed in particolare quella di cui all'allegato B punto D.4 — che rappresentano una normativa parallela rispetto alla legge-quadro sui rifiuti, che non esclude quest'ultima, ma anzi coesiste con essa.

Alla luce di quanto sopra ampiamente spiegato, pertanto, sull'ambito di applicabilità del decreto Ronchi, per cui "la normativa, sia nazionale che comunitaria, in tema di inquinamento atmosferico completa,.. e non assorbe quella sui rifiuti ma deve coesistere ed integrarsi" (cfr. Cassazione penale Sezione III, 19 marzo 1999, n. 494 cit. supra), deve concludersi che la combustione — o postcombustione che dir si voglia — del refluo gassoso ricco di CO derivante dalla rigenerazione del catalizzatore dell'impianto cracking catalitico, nella caldaia del CO boiler, rappresenta un'attività di smaltimento di un rifiuto gassoso derivante da un ciclo industriale, che come tale doveva essere autorizzata ai sensi dell'articolo 28 del Dlgs 22/97.

Circa la questione, poi, sopra accennata, se la caldaia del CO boiler faccia parte integrante del processo di raffinazione— come ritengono i consulenti della difesa degli imputati — o meno — come ritengono i consulenti del Pm — si osserva che detta questione è ininfluente ai fini giuridici de quibus, perché non sposta il problema della necessarietà o meno dell'autorizzazione al trattamento termico del refluo in oggetto.

Si osserva, comunque, che, ad avviso di questo Giudice, da un punto di vista generale la caldaia del CO boiler fa parte del processo di raffinazione, nel senso che è necessaria nella raffineria proprio per il trattamento dei gas scaturenti dal cracking degli idrocarburi pesanti e, dunque, da un punto di vista generale è esatto quanto affermano i consulenti della difesa ("gli impianti di rigenerazione dei catalizzatori fanno parte integrante dei processi di raffinazione", v. cons. dif. pag. 41).

Da un punto di vista particolare, tuttavia, se la caldaia del CO boiler ha solo la funzione del trattamento termico del refluo gassoso ricco di CO derivante dalla rigenerazione del catalizzatore ed è funzionale all'ossidazione dell'ossido di carbonio, allora deve escludersi — come sostengono i consulenti del Pm ("la caldaia del CO boiler non costituisce una parte integrante del circuito produttivo dell'impianto di cracking catalitico", v. cons. tec. Pm pag. 23) — che faccia parte integrante del processo di raffinazione, nel senso che la caldaia del CO boiler, se pur necessaria per la raffinazione del petrolio (nel senso che serve a rendere funzionante il catalizzatore dell'impianto di cracking), non è direttamente deputata alla raffinazione degli idrocarburi pesanti, a cui invece è preposto l'impianto di cracking catalitico e dunque sotto tale profilo è esatto quanto sostengono i consulenti del Pm; ma, si ripete, trattasi di questione puramente nominalistica che non influisce sulla prova dell'imputazione di cui al capo B.1).

Infine, nella prospettiva accusatoria, la combustione del rifiuto gassoso ricco di CO derivante dalla rigenerazione del catalizzatore, deve "considerarsi incenerimento a norma del Dm 503/98 (rifiuti speciali non pericolosi — Cer sezione 05 00 00, sottosezione 05 06 00, codice 05 06 99)" (v. capo B1 imputazione).

I consulenti della difesa ritengono che l'attribuzione fatta dai consulenti del Pm del codice Cer a detto gas di un "codice aspecifico, di chiusura della classe dei rifiuti connessi con il trattamento pirolitico del carbone" deve ritenersi una "assegnazione impropria", perché "significa che non è stato reperito un codice atto a rappresentare la corrente gassosa" (v. cons. dif. pag. 41).

In ogni caso, i consulenti della difesa — escludendo dalla categoria dei rifiuti gli aeriformi che possono solo essere assoggettati alla disciplina del Dpr n. 203/88 — escludono in toto la possibilità dell'assegnazione al refluo gassoso di un codice Cer, che riguarda, appunto, i rifiuti; "Cer" sta, infatti, per catalogo europeo dei rifiuti.

Si osserva al riguardo che l'assegnazione del numero di codice Cer al gas in questione è anch'essa questione ininfluente sul piano giuridico, che non sposta i termini del problema della natura del refluo gassoso come rifiuto o meno, anche perché i consulenti del Pm hanno comunque qualificato detto gas come rifiuto speciale non pericoloso; diversamente sarebbe stato se si fosse discusso sulla natura pericolosa o meno del gas in oggetto, perché — in tal caso — diverso sarebbe stato il trattamento giuridico e sanzionatorio.

In ordine alla qualificazione della combustione del rifiuto gassoso ricco di CO derivante dalla rigenerazione del catalizzatore, come " incenerimento a norma del Dm 503/98" deve osservarsi — a parte l'erronea indicazione "DM 503/98", che è invece il Dm 19 novembre 1997, n. 503, regolamento recante norme per l'attuazione delle direttive 89/369/Cee e 89/429/Cee concernenti la prevenzione dell'inquinamento atmosferico provocato dagli impianti di incenerimento dei rifiuti urbani e la disciplina delle emissioni e delle condizioni di combustione degli impianti di incenerimento di rifiuti urbani, di rifiuti speciali non pericolosi, nonché di taluni rifiuti sanitari — che detto regolamento rappresenta un esempio di come la normativa ambientale di tutela dell'aria dall'inquinamento atmosferico coesista e completi la normativa ambientale in tema di rifiuti, a prescindere dallo stato fisico del rifiuto medesimo. Il Dm 503/97, infatti, proprio al fine di disciplinare le emissioni in atmosfera di impatto ambientale, stabilisce dei valori limite di emissione e dei metodi di monitoraggio di dette emissioni, quando dette emissioni sono il residuo del trattamento di combustione di rifiuti non pericolosi (v. articolo 1 Dm 503/97).

L'articolo 2 del Dm 503/97 definisce, agli effetti del decreto, ""impianto di incenerimento": qualunque apparato tecnico utilizzato per l'incenerimento dei rifiuti di cui all'articolo 1 mediante ossidazione compreso il pretrattamento tramite pirolisi o altri processi di trattamento termico, per esempio il processo al plasma, a condizione che i prodotti che si generano siano successivamente inceneriti, con o senza recupero del calore prodotto. La presente definizione include tutte le installazioni ed il luogo ove queste sono ubicate compresi: la ricezione dei rifiuti in ingresso allo stabilimento, lo stoccaggio, le apparecchiature di pretrattamento, l'inceneritore, i sistemi di alimentazione dei rifiuti, del combustibile ausiliario e dell'aria di combustione, il generatore di calore, le apparecchiature di trattamento, movimentazione e stoccaggio dei rifiuti risultanti dal processo di incenerimento, le apparecchiature di trattamento dei gas e delle acque di scarico, i camini, i dispositivi e sistemi di controllo delle varie operazioni, e di registrazione e monitoraggio delle condizioni di incenerimento".

Non v'è dubbio che il trattamento termico del refluo gassoso derivante dalla rigenerazione del catalizzatore dell'impianto cracking debba essere qualificato come attività di "incenerimento" ai sensi del Dm 503/97, per i seguenti motivi: 1) detto refluo è un rifiuto gassoso — come sopra spiegato — in quanto sottoposto ad un trattamento di smaltimento — nella specie combustione per ossidarlo — ai fini della successiva emissione e di cui quindi il detentore se ne disfa, previo trattamento, proprio per l'impossibilità dell'emissione diretta in atmosfera; 2) la caldaia CO boiler rientra tra gli impianti di incenerimento ai sensi dell'articolo 2 del Dm 503/97, trattandosi di un "apparato tecnico utilizzato per l'incenerimento dei rifiuti di cui all'articolo 1 mediante ossidazione" e rientrando fra le "apparecchiature di trattamento dei gas".

Dal punto di vista materiale, pertanto, il reato contravvenzionale di cui al capo B.1 dell'imputazione, per le considerazioni sin qui svolte, deve ritenersi provato a carico degli imputati attesa da una parte, la natura di rifiuto del gas di cui si discute e l'assenza dell'autorizzazione ai sensi del Dlgs n. 22/97 al trattamento del medesimo e dall'altra, la circostanza di fatto che il (...) ha ricoperto la carica di direttore della raffineria di Gela dall'1/11/2000 al 21/12/2001 ed il (...) ha assunto la assunto la stessa carica dal 21/12/2001 al 16/4/2004 (v. ordini di servizio nn. 1204, 1106 e 10 in atti).

La natura permanente del reato de quo induce a ritenere esattamente contestata la permanenza nell'imputazione, atteso che trattasi di reato omissivo ove la condotta cessa solo con l'adempimento dell'obbligo prescritto, rappresentato in tal caso, dalla richiesta e dall'ottenimento dell'autorizzazione di cui all'articolo 28 del Dlgs 22/97.

Dal punto di vista soggettivo, attesa la posizione di garanzia — inerente al ruolo di direttore della raffineria — dell'osservanza di tutte le norme giuridiche che presiedono allo svolgimento dell'attività industriale in oggetto, comprese quelle riguardanti la protezione dell'ambiente e la salute in generale, deve ritenersi provata in giudizio la sussistenza della colpa professionale in capo ai predetti imputati, per non aver chiesto la prescritta autorizzazione, nonostante la sussistenza dell'autorizzazione ai sensi del Dpr n. 203/88.

L'esistenza di copiosa letteratura in materia di qualificazione giuridica come rifiuti dei gas sottoposti a trattamento ai fini dello smaltimento, la sussistenza di pronunce della Corte di Cassazione, oltre che della Corte di Giustizia europea, induce a ritenere che, qualora gli imputati si fossero conformati al parametro dell'agente modello, cioè dell'uomo giudizioso eiusdem professionis et condicionis, parametro imposto dal grado di professionalità dovuta in relazione al ruolo rivestito e dagli standards di conoscenze tecnico-giuridiche esistenti nel caso concreto, non avrebbero commesso il reato contravvenzionale omissivo di cui si discute. L'osservanza dell'obbligo di condotta era, dunque, nel caso concreto esigibile e gli imputati, in quanto titolari di una posizione di garanzia, dovevano e potevano impedire l'inosservanza medesima, qualora si fossero uniformati al parametro della diligenza e perizia richiesto nello svolgimento dell'attività professionale in concreto svolta.

Gli imputati, dunque, non a titolo di responsabilità oggettiva — come ritenuto dalla difesa degli stessi — bensì a titolo di colpa sono chiamati a rispondere del reato di cui al capo B.1 dell'imputazione, proprio perché, qualora avessero agito nel rispetto delle regole precauzionali scritte e non scritte con riferimento alla migliore scienza ed esperienza esistente nel caso concreto, avrebbero certamente adempiuto all'obbligo imposto ed evitato l'inadempimento dell'obbligo di condotta cui erano giuridicamente tenuti.

Sotto il profilo del computo dei termini di prescrizione, è chiaro che la permanenza è cessata per il (...) il 21/12/2001 e per il (...), al più il 16/4/2004 (visto che non è certo dalla documentazione versata in atti se sia questa la data di decorrenza dell'ordine di servizio n. 10 del 16/4/2004). Per il (...), dunque, ancorché prossima, la prescrizione non è, ad oggi, ancora maturata.

 

Capo B. 3 — Trattamento Acque Stabilimento (Tas)

Come sopra spiegato sub A.3, l'impianto di trattamento delle acque di stabilimento presente nella raffineria di Gela ha la funzione di consentire la separazione per gravità dei liquidi idrocarburici (olii idrocarburici) dall'acqua: quest'ultima ne risulta depurata ed inviata al trattamento biologico, mentre gli olii idrocarburici possono essere reimmessi nel ciclo produttivo. Il processo di separazione degli olii idrocarburici dall'acqua comporta la formazione di reflui gassosi idrocarburici, i quali, per la loro natura inquinante, non possono essere immessi liberamente in atmosfera e per tale motivo l'impianto Tas risulta coperto per circa il 95%, proprio al fine di non consentire la libera immissione in atmosfera di queste sostanze idrocarburiche volatili.

Tali correnti gassose generate nell'impianto Tas vengono convogliate nella cosiddetta torcia Teco dell'impianto medesimo ossia in un combustore, quando si determina una sovrapressione. Come ha chiarito l'ing. Toscano, tecnico della Provincia di Caltanissetta, settore territorio e ambiente, tale combustore assolve ad "una funzione di sicurezza… in continuo" (v. trascr. udienza 24/3/06 teste Toscano, pag. 4) nel senso che quando i gas presenti all'interno dell'impianto Tas, nella parte coperta — come le vasche Api coperte e polmonate — aumentano, così da determinare un aumento di pressione, essi, proprio per effetto della sovrapressione, confluiscono nella torcia per essere combusti e quindi immessi in atmosfera. L'ing. Toscano ha quindi chiarito che la continuità deve essere intesa come funzione continua del combustore, ma come funzionalità discontinua nel senso che è operativo solo quando vi confluiscono gas da sovrapressione (v. trascr. udienza 24/3/06 teste Toscano, pag. 8).

I consulenti del Pm hanno sostenuto che l'impianto di combustione del refluo gassoso proveniente dalle vasche Api coperte e polmonate, sulla base della definizione d'inceneritore contenuta nel Dm 503/97, è da classificare un impianto di incenerimento di rifiuti. "La combustione di tale rifiuto è quindi assoggettata, come quella di tutti i rifiuti, all'autorizzazione ai sensi degli articoli 27 e 28 del Dlgs. 22/97, che non è stata né richiesta, né ottenuta" (v. cons. tec. Pm , Sanna — Mininni, pag. 44).

I predetti consulenti hanno precisato, poi, che: "tale rifiuto in quanto tale è qualificabile con il codice Cer e precisamente trattandosi di un rifiuto dalla raffinazione del petrolio (sezione 05 00 00, sottosezione 05 01 00) costituito da un rifiuto gassoso non compreso tra i rifiuti specificati nella sottosezione è da catalogare con il codice Cer 05 01 99 non compreso tra i rifiuti elencati nell'allegato D e quindi non classificabile come rifiuto pericoloso" (v. cons. tec. Pm , Sanna — Mininni, pagg. 43-44).

I consulenti della difesa degli imputati hanno sostenuto l'assoluta mancanza di necessità dell'autorizzazione ai sensi del decreto Ronchi per la combustione di questi gas provenienti dall'impianto Tas, dal momento che la "torcia" deve qualificarsi come "un impianto di sicurezza destinato per sua natura ad un funzionamento discontinuo" dal momento che nelle vasche coperte "non" si determina "evaporazione" se si raggiunge "l'equilibrio tra fase vapore e liquido galleggiante"; "l'atmosfera nella copertura delle vasche è costituita da composti idrocarburici e da azoto (introdotto per ragioni di sicurezza e per evitare l'ingresso di aria che creerebbe un'atmosfera esplosiva) e soltanto la presenza di sovrapressioni transitorie, causando lo sfondamento della guardia idraulica, determina un flusso di uscita verso la torcia" (v. cons. tec., Giacomello — Spadoni, pagg. 42-43).

A sostegno della tesi difensiva vengono addotte le seguenti argomentazioni giuridiche.

In primo luogo il Da n. 24/17 del 20/1/99 e, conformemente, il Drs n. 119 del 14/3/2002 prescrivono, sub " impianto Tas": "i vapori di idrocarburi contenuti nello sfiato di sovrapressione devono essere inviati a termodistruzione"; ne consegue — secondo la prospettiva difensiva — che l'autorizzazione già esiste ed anzi non è necessaria perché imposta dallo stesso decreto autorizzativo.

In secondo luogo, il Dpcm 21 luglio 1989 — atto di indirizzo e coordinamento alle regioni, ai sensi dell'articolo 9 della legge 8 luglio 1986, n. 349, per l'attuazione e l'interpretazione del decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 203, recante norme in materia di qualità dell'aria relativamente a specifici agenti inquinanti e di inquinamento prodotto da impianti industriali — stabilisce al paragrafo I, punto 3 ( comma così modificato dall'articolo 1, lettera a), al capo I del Dpr 25 luglio 1991) : "non sono soggetti alla procedura autorizzatoria di cui agli articoli 7, 12 e 13 del decreto del Presidente della Repubblica n. 203 gli impianti di emergenza e di sicurezza, nonché i laboratori di analisi e ricerca e gli impianti pilota per prove, ricerche, sperimentazioni, individuazioni di prototipi. La presente disposizione non si applica per quanto riguarda le sostanze ritenute cancerogene e/o teratogene e/o mutagene e le sostanze di tossicità e cumulabilità particolarmente elevate, come individuate dai provvedimenti emanati ai sensi dell'articolo 3, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 203".

Sotto tale profilo, dunque, la difesa degli imputati ha sostenuto la non necessarietà dell'autorizzazione proprio perché il Dpcm 21 luglio 1989 al paragrafo I, punto 3) esclude la necessità dell'autorizzazione ai sensi del Dpr n. 203/88 sulle emissioni, proprio perché il combustore dell'impianto Tas è una torcia di sicurezza.

In terzo luogo, il Dm 12 luglio 1990 indicante le linee guida per il contenimento delle emissioni degli impianti industriali e la fissazione dei valori minimi di emissione all'allegato III B sub "Raffinerie di olii minerali" al punto D.3 stabilisce: "i gas e i vapori che si producono nelle apparecchiature per la riduzione della pressione o nelle apparecchiature da vuoto devono essere convogliati ad un sistema di raccolta del gas; questo non vale per le apparecchiature per l'abbassamento della pressione che si usano per l'impianto di emergenza o di incendio, o se si fa sovrappressione a seguito della polimerizzazione o di processi analoghi; i gas raccolti devono essere combusti in impianti di processo, oppure, nel caso questa soluzione non fosse possibile, devono essere portati ad un bruciatore a torcia".

Il medesimo Dm allegato III B, al punto D.6 poi prevede: " omissis…L'acqua di processo eccedente può essere fatta defluire in un sistema aperto solo dopo il degassaggio, ove ciò sia necessario, in tal caso l'effluente gassoso deve essere depurato mediante lavaggio, combustione o altro opportuno sistema".

Analogamente, anche sotto tale profilo, nella prospettiva difensiva, l'autorizzazione alla combustione in torcia dei gas derivanti dall'impianto Tas coperto non è necessaria perché detta combustione è imposta dal Dm 12 luglio 1990 all'allegato III B al punto D. 3 ("i gas raccolti devono essere combusti in impianti di processo, oppure … devono essere portati ad un bruciatore a torcia") e D.6 ("…l'effluente gassoso deve essere depurato mediante lavaggio, combustione o altro opportuno sistema").

La difesa degli imputati, pertanto, conclude nel senso che "il capo di imputazione è privo di fondamento tecnico" (v. cons. tec., Giacomello— Spadoni, pag. 43).

Ad avviso di questo Giudice le argomentazioni difensive addotte devono essere disattese per le ragioni di seguito esposte.

Come ampiamente spiegato supra sub "premessa" in ordine alla nozione di rifiuto, deve necessariamente qualificarsi come rifiuto la corrente gassosa che si genera dall'evaporazione degli olii idrocarburici nell'impianto Tas polmonato e pressurizzato dal momento che tale refluo, ai fini dello smaltimento e quindi della successiva emissione in atmosfera, viene previamente gestito ossia trattato mediante combustione nella torcia Teco, che è un termocombustore.

Ne deriva quindi che gli imputati, nel periodo in cui hanno rivestito la carica di direttori della raffineria di Gela, hanno omesso di richiedere e di ottenere l'autorizzazione al trattamento ai fini dello smaltimento di detti reflui, mediante la combustione in torcia, ai sensi degli articoli 27 e 28 del Dlgs 22/97 ossia in base alla normativa generale sui rifiuti.

Ne deriva ulteriormente che detta torcia Teco rappresenta un impianto di incenerimento ai sensi dell'articolo 2 del Dm n. 503/1997.

Come già sopra visto, il Dm 19 novembre 1997, n. 503 — regolamento recante norme per l'attuazione delle direttive 89/369/Cee e 89/429/Cee concernenti la prevenzione dell'inquinamento atmosferico provocato dagli impianti di incenerimento dei rifiuti urbani e la disciplina delle emissioni e delle condizioni di combustione degli impianti di incenerimento di rifiuti urbani, di rifiuti speciali non pericolosi, nonché di taluni rifiuti sanitari — rappresenta un esempio di come la normativa ambientale di tutela dell'aria dall'inquinamento atmosferico coesista e completi la normativa ambientale in tema di rifiuti, a prescindere dallo stato fisico del rifiuto medesimo. Il Dm 503/97, infatti, proprio al fine di disciplinare le emissioni in atmosfera di impatto ambientale, stabilisce dei valori limite di emissione e dei metodi di monitoraggio di dette emissioni, quando dette emissioni siano il residuo del trattamento di combustione di rifiuti non pericolosi (v. articolo 1 Dm 503/97).

L'articolo 2 del Dm 503/97 definisce, agli effetti del decreto, ""impianto di incenerimento": qualunque apparato tecnico utilizzato per l'incenerimento dei rifiuti di cui all'articolo 1 mediante ossidazione compreso il pretrattamento tramite pirolisi o altri processi di trattamento termico, per esempio il processo al plasma, a condizione che i prodotti che si generano siano successivamente inceneriti, con o senza recupero del calore prodotto. La presente definizione include tutte le installazioni ed il luogo ove queste sono ubicate compresi: la ricezione dei rifiuti in ingresso allo stabilimento, lo stoccaggio, le apparecchiature di pretrattamento, l'inceneritore, i sistemi di alimentazione dei rifiuti, del combustibile ausiliario e dell'aria di combustione, il generatore di calore, le apparecchiature di trattamento, movimentazione e stoccaggio dei rifiuti risultanti dal processo di incenerimento, le apparecchiature di trattamento dei gas e delle acque di scarico, i camini, i dispositivi e sistemi di controllo delle varie operazioni, e di registrazione e monitoraggio delle condizioni di incenerimento".

Non vi è dubbio, quindi, che la torcia Teco è un impianto di incenerimento ai sensi dell'articolo 2 del Dm 503/97 proprio perché è un'apparecchiatura di trattamento termico dei gas da smaltire.

La normativa qui richiamata, di cui al Dlgs n. 22/97 e al Dm n. 503/97, è normativa sui rifiuti che per le ragioni ampiamente illustrate è applicabile al caso di specie; ma tale normativa — come sopra già spiegato — costituisce normativa parallela rispetto a quella sulle emissioni, che la completa e la integra senza escluderla e ciò si afferma, proprio in applicazione del principio espresso in materia dalla giurisprudenza di legittimità, più volte richiamata (v. Cassazione Sezione III, sent. 19 marzo 1999, n. 494 cit.).

La normativa richiamata dalla difesa degli imputati ossia il Dpcm 21 luglio 1989 e il Dm 12 luglio 1990 rappresentano normativa sulle emissioni in atmosfera, come anche il Da 24/17 e il Drs 119/2002 rappresentano autorizzazioni rilasciate alla raffineria ai sensi della normativa generale sulle emissioni (Dpr 203/88) e non sui rifiuti (Dlgs 22/97); ne consegue che tale normativa (e l'autorizzazione emessa ai sensi del dPR 203/88) non esclude l'applicazione della normativa (e la necessità dell'autorizzazione) sui rifiuti.

In primo luogo, il fatto che il Da n. 24/17 del 20/1/99 e conformemente, il Drs n. 119 del 14/3/2002 prescrivano, sub " impianto Tas" che: "i vapori di idrocarburi contenuti nello sfiato di sovrapressione devono essere inviati a termodistruzione" sta soltanto a significare che la Regione ha prescritto detta termodistruzione, ma ciò non vuol dire che ha autorizzato la stessa in base alla normativa generale di cui agli articoli 27 e 28 Dlgs 22/97; trattasi di mera indicazione di modalità operativa che certamente non può assorbire il resto della normativa applicabile (in tal caso la disciplina sui rifiuti) al caso di specie.

In secondo luogo, il fatto che il Dpcm 21 luglio 1989 al paragrafo I, punto 3 stabilisca che: "non sono soggetti alla procedura autorizzatoria di cui agli articoli 7, 12 e 13 del decreto del Presidente della Repubblica n. 203 gli impianti di emergenza e di sicurezza" sta a significare innanzitutto l'esclusione della necessità dell'autorizzazione ai sensi della normativa sulle emissioni, lasciando impregiudicata ogni questione autorizzatoria riferita ad altre discipline, nel caso de quo la normativa sui rifiuti; inoltre, occorre accertare se il combustore dell'impianto Tas sia effettivamente una torcia di sicurezza.

Ad avviso di questo Giudice si impongono, sotto tale profilo, alcune considerazioni.

L'ing. Toscano, tecnico qualificato della Provincia, che ha effettuato numerosi sopralluoghi nella raffineria, ha affermato in giudizio che la torcia Teco assolve ad "una funzione di sicurezza… in continuo" (v. trascr. udienza 24/3/06 teste Toscano, pag. 4) chiarendo, nella sostanza, a domanda della difesa degli imputati, che la continuità deve essere intesa come funzione continua del combustore, ma come funzionalità discontinua nel senso che è operativo solo quando vi confluiscono gas da sovrapressione; "la continuità — spiega — è nel senso che questa è una funzione continua" (v. trascr. udienza 24/3/06 teste Toscano, pag. 8) ossia ha una funzionalità abituale nel senso che senza il combustore l'impianto "non potrebbe funzionare" (v. trascr. udienza 24/3/06 teste Toscano, pag. 4).

Ne deriva che, la torcia Teco non può essere qualificata impianto di sicurezza ai sensi del paragrafo I, punto 3 del Dpcm 21 luglio 1989 perché tecnicamente un impianto o dispositivo di sicurezza ha una funzionalità eccezionale, nel senso che garantisce la sicurezza del sistema impiantistico per l'incolumità dei lavoratori e/o della generalità dei consociati entrando in funzione in casi eccezionali quando si determinano situazioni eccezionali, ossia ulteriori rispetto alla routine del sistema di lavorazione o produzione proprio dell'impianto industriale preso in considerazione.

Tale eccezionalità non sussiste nel caso di specie, atteso che — come ha chiarito l'ing. Toscano — la torcia Teco è un elemento dell'impianto Tas con funzione continua, seppur con funzionalità discontinua — come precisa il Giudicante, dal momento che diventa operativa quando si determina una sovrapressione del gas — ma trattasi pur sempre di una funzionalità abituale, perché detto termocombustore fa parte integrante del sistema impiantistico in oggetto, nel senso che senza di esso l'intero sistema non potrebbe funzionare; in altre parole, fa parte integrante, della routine del ciclo di produzione industriale.

Si conclude, quindi, che la torcia Teco non è una torcia di sicurezza ai sensi del paragrafo I, punto 3 del Dpcm 21 luglio 1989.

Ad abundantiam, si aggiunge che anche qualora la torcia Teco dell'impianto Tas fosse stata una torcia di sicurezza, l'autorizzazione ai sensi del Dpr n. 203/88 sarebbe stata egualmente necessaria qualora le emissioni in atmosfera derivanti dalla combustione avessero contenuto "sostanze ritenute cancerogene e/o teratogene e/o mutagene e le sostanze di tossicità e cumulabilità particolarmente elevate, come individuate dai provvedimenti emanati ai sensi dell'articolo 3, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 203".

La qualità e la concentrazione delle sostanze presenti nei gas derivanti dall'evaporazione degli idrocarburi presenti in soluzione acquosa nelle vasche Api polmonate e pressurizzate non sono state provate in giudizio e l'ipotesi avanzata dai consulenti del Pm in giudizio, in sede di esame, circa la presenza in detta corrente gassosa, destinata ad essere combusta nella torcia, di sostanze cancerogene, come il benzene (v. trascr. udienza 24/2/2005 teste Sanna pag. 80), resta una mera ipotesi non provata in giudizio.

Infine, la circostanza che il Dm 12 luglio 1990 all'allegato III B al punto D.3 imponga che: "i gas raccolti devono essere combusti in impianti di processo, oppure … devono essere portati ad un bruciatore a torcia" e al punto D.6 che: "…l'effluente gassoso deve essere depurato mediante lavaggio, combustione o altro opportuno sistema" sta soltanto ad indicare in sede di linee guida per il contenimento delle emissioni degli impianti industriali e di fissazione dei valori minimi di emissione — e dunque in sede di normativa sulle emissioni — una modalità di trattamento dei gas prodotti negli impianti delle Raffinerie di olii minerali (a cui si riferisce la sezione B dell'allegato III del Dm cit.).

Tale normativa, in altre parole, impone la combustione ai fini della successiva emissione dei gas derivanti dalle vasche Api coperte e polmonate (imponendo il contenimento delle emissioni e la fissazione dei valori minimi delle stesse) senza escludere l'applicabilità della normativa generale sui rifiuti che comunque impone la necessarietà dell'autorizzazione ai sensi degli articoli 27 e 28 del Dlgs 22/97.

Trattasi — lo si ricorda ancora una volta — "di normativa…in tema di inquinamento atmosferico — che — completa, infatti, e non assorbe quella sui rifiuti, ma deve coesistere ed integrarsi" (cfr. Cassazione penale Sezione III, 19 marzo 1999, n. 494, cit.).

Dal punto di vista materiale, pertanto, il reato contravvenzionale di cui al capo B.3 dell'imputazione, per le considerazioni sin qui svolte, deve ritenersi provato a carico degli imputati attesa da una parte, la natura di rifiuto del gas di cui si discute e l'assenza dell'autorizzazione ai sensi del Dlgs n. 22/97 al trattamento del medesimo e dall'altra, la circostanza di fatto che il (...) ha assunto la posizione di direttore della raffineria di Gela dall'1/11/2000 al 21/12/2001 ed il (...) ha assunto la predetta posizione dal 21/12/2001 al 16/4/2004 (v. ordini di servizio nn. 1204, 1106 e 10 in atti).

La natura permanente del reato de quo induce a ritenere esattamente contestata la permanenza nell'imputazione, atteso che trattasi di reato omissivo ove la condotta cessa solo con l'adempimento dell'obbligo prescritto, rappresentato in tal caso, dalla richiesta e dall'ottenimento dell'autorizzazione di cui agli articoli 27 e 28 del Dlgs 22/97.

Dal punto di vista soggettivo, attesa la posizione di garanzia — inerente al ruolo di direttore della raffineria — dell'osservanza di tutte le norme giuridiche che presiedono allo svolgimento dell'attività industriale in oggetto, comprese quelle riguardanti la protezione dell'ambiente e la salute in generale, deve ritenersi provata in giudizio la sussistenza della colpa professionale in capo ai predetti imputati, per non aver chiesto la prescritta autorizzazione, nonostante la sussistenza dell'autorizzazione ai sensi del Dpr n. 203/88.

L'esistenza di copiosa letteratura in materia di qualificazione giuridica come rifiuti dei gas sottoposti a trattamento ai fini dello smaltimento, la sussistenza di pronunce della Corte di Cassazione, oltre che della Corte di Giustizia europea, induce a ritenere che, qualora gli imputati si fossero conformati al parametro dell'agente modello, cioè dell'uomo giudizioso eiusdem professionis et condicionis, parametro imposto dal grado di professionalità dovuta in relazione al ruolo rivestito e dagli standards di conoscenze tecnico-giuridiche esistenti nel caso concreto, non avrebbero commesso il reato contravvenzionale omissivo di cui si discute. L'osservanza dell'obbligo di condotta era, dunque, nel caso concreto esigibile e gli imputati, in quanto titolari di una posizione di garanzia, dovevano e potevano impedire l'inosservanza medesima, qualora si fossero uniformati al parametro della diligenza e perizia richiesto nello svolgimento dell'attività professionale in concreto svolta.

Gli imputati, dunque, non a titolo di responsabilità oggettiva — come ritenuto dalla difesa degli stessi — bensì a titolo di colpa sono chiamati a rispondere del reato di cui al capo B.3 dell'imputazione, proprio perché, qualora avessero agito nel rispetto delle regole precauzionali scritte e non scritte con riferimento alla migliore scienza ed esperienza esistente nel caso concreto, avrebbero certamente adempiuto all'obbligo imposto ed evitato l'inadempimento dell'obbligo di condotta cui erano giuridicamente tenuti.

Sotto il profilo del computo dei termini di prescrizione, è chiaro che la permanenza è cessata per il (...) il 21/12/2001 e per il (...), al più il 16/4/2004 (visto che non è certo dalla documentazione versata in atti se sia questa la data di decorrenza dell'ordine di servizio n. 10 del 16/4/2004). Per il (...), dunque, ancorché prossima, la prescrizione non è, ad oggi, ancora maturata.

 

Capo B. 4 — Impianto Claus

L'impianto Claus — secondo i consulenti del Pm — ha la funzione "di convertire in zolfo la corrente di idrogeno solforato, generata dai processi di desolforazione dei greggi lavorati in raffineria" (v. cons. tec. Pm — Sanna, Mininni, pag. 67). Detti consulenti poi precisano: "l'impianto Claus non costituisce strettamente parte integrante del ciclo produttivo ma costituisce un presidio fondamentale per la desolforazione dei prodotti trattati nella raffineria. Senza tale processo non sarebbe possibile abbattere l'acido solfidrico, derivante dalla desolforazione delle differenti frazioni petrolifere liquide e gassose trattate nello stabilimento, trasformandolo in zolfo elementare…" (v. cons. tec. Pm — Sanna, Mininni, pag. 69).

Secondo i consulenti della difesa degli imputati la descrizione dell'impianto è, invece, la seguente: nell'impianto Claus viene inviata una corrente gassosa ricca di idrogeno solforato (H2S) che deve essenzialmente essere trasformata in zolfo (S), che però non proviene dalla desolforazione del petrolio, bensì dalla desolforazione del fuel gas, il quale viene bruciato in mix con olio combustibile nell'impianto Vacuum.

Il fuel gas è un gas combustibile prodotto in svariate operazioni produttive della raffineria ed è composto in generale da idrogeno, metano, etano e idrogeno solforato o solfuro d'idrogeno (H2S). Il fuel gas viene quindi sottoposto a desoforazione attraverso una duplice operazione: in primo luogo si procede all'assorbimento dell'idrogeno solforato contenuto nel fuel gas nella soluzione acquosa di dietanolammina (Dea ); poi la soluzione acquosa di Dea , ricca di idrogeno solforato viene inviata nella colonna di stripping della Dea ove tale soluzione acquosa viene riscaldata, con conseguente liberazione per evaporazione di idrogeno solforato. È questa corrente gassosa ottenuta dalla colonna di stripping, ricca di idrogeno solforato, ad essere inviata nell'impianto Claus ai fini della produzione dello zolfo (v. cons. tec. difesa imp. — Spadoni, Giacomello pagg. 3 e 44, nonché trascr. udienza 26/1/06 pag. 52).

Dunque, in sintesi, secondo i consulenti del Pm nel Claus viene inviata la corrente gassosa ricca di H2S proveniente dai processi di desolforazione del petrolio, secondo i consulenti della difesa in detto impianto viene inviata la corrente gassosa ricca di H2S proveniente dal processo di desolforazione del fuel gas utilizzato nell'impianto Vacuum.

Questo Giudice osserva che la descrizione dell'impianto Claus effettuata dai consulenti della difesa è certamente più precisa, ma i termini della questione giuridica de qua in realtà rimangono immutati: è incontroverso, infatti, che nell'impianto Claus viene inviata una corrente gassosa ricca di H2S che deve essere trattata per produrre zolfo, non potendo essere immesso in atmosfera liberamente l'idrogeno solforato altamente nocivo.

Nell'impianto Claus, dunque, si effettuano due successive operazioni (reazioni) chimiche: prima si effettua una ossidazione parziale della corrente gassosa inviata nel Claus dalla quale si ricava SO2 (biossido di zolfo) e idrogeno solforato (H2S) non reagito; quindi l'SO2 e l'H2S non reagito vengono fatti reagire in presenza di un catalizzatore: da tale reazione si genera zolfo elementare e vapore acqueo contenente anche una percentuale di H2S non reagito, residuale (v. cons. tec. difesa difesa imp. — Spadoni, Giacomello pag. 45, nonché trascr. udienza 26/1/06 pagg. 52-53).

Secondo i consulenti del Pm — i quali hanno effettuato l'ispezione dell'impianto il 10 aprile 2001 — il trattamento nell'impianto Claus (nel postcombustore) della corrente gassosa ricca di idrogeno solforato rappresenta un trattamento per combustione di rifiuti gassosi, in quanto tale soggetto ad autorizzazione ai sensi degli articoli 27 e 28 del Dlgs n. 22/97, autorizzazione che risulta né richiesta, né ottenuta.

In giudizio, peraltro, la questione dell'assenza dell'autorizzazione ai sensi del decreto Ronchi è risultata incontroversa.

Secondo i consulenti della difesa degli imputati tale autorizzazione non è dovuta perché trattasi di corrente gassosa esclusa dalla categoria dei rifiuti, che possono solo essere solidi o liquidi (v. trascr. udienza 26/1/06, Spadoni pag. 54 e cons. tec. Spadoni— Giacomello pag. 45); precisano ulteriormente che il Dm 12 luglio 1990 nell'allegato B (relativo alle raffinerie di olii minerali), sezione B, punto 9 viene stabilito che: "per gli impianti Claus per la produzione di zolfo vale inoltre quanto segue: — gli effluenti gassosi dell'impianto devono essere convogliati ad un postcombustore.".

Aggiungono, poi, che il Da 24/17 del 20/1/99 prescrive sub impianto Claus: "Gli effluenti gassosi dell'impianto devono essere convogliati ad un post-combustore in grado di consentire un valore di emissione per l'idrogeno solforato di: H2S < 20 mg/Nmc. La conversione operativa dell'intera sezione di recupero non può essere inferiore al 97,5%".

Del resto — osserva il Giudicante — la medesima prescrizione è stata ribadita nel Drs n. 119 del 14 marzo 2002.

Sostengono quindi i consulenti della difesa che il trattamento della combustione della corrente gassosa nell'impianto Claus non deve essere autorizzata in primo luogo, perché non esiste la categoria dei rifiuti gassosi; in secondo luogo, perché la combustione è imposta dal Dm 12 luglio 1990 e dal Da 24/17, che autorizzando l'impianto, prescrive anche la post-combustione, precisando: "l'impianto Claus è esplicitamente previsto ed autorizzato tra gli impianti di raffineria ed il post-combustore ne è parte integrante, obbligatoriamente prescritto." (v. cons. tec. difesa imp. — Spadoni, Giacomello pag. 45).

I consulenti della difesa aggiungono poi che l'assegnazione del codice Cer 05 05 01 effettuata dall'accusa alla corrente gassosa del Claus sarebbe impropria, oltre che in principio, perchè non si tratta di un rifiuto, anche per il fatto che il codice 05 05 01 si riferisce ai rifiuti contenenti zolfo derivanti dai processi di desolforazione del petrolio, mentre l'impianto Claus tratta la corrente gassosa derivante dalla desolforazione del fuel gas. Concludono, quindi, i consulenti della difesa che "il capo di imputazione appare privo di qualsiasi fondamento tecnico" (v. cons. tec. Pm Sanna— Mininni pag. 70 e cons. difesa imp. Spadoni— Giacomello pag. 45, oltre a trascr. udienza 26/1/06 pagg. 53-54).

Ad avviso di questo Giudice le argomentazioni difensive, anche in questo caso, devono essere disattese per le ragioni di seguito esposte.

Preliminarmente, come ampiamente spiegato ut supra, l'esistenza della categoria dei rifiuti gassosi, rappresenta una realtà giuridica alla luce del diritto interno e comunitario, così come interpretato dalla Suprema Corte di Cassazione e dalla Corte di Giustizia europea, per cui la negazione in radice di detta categoria appare giuridicamente infondata.

In secondo luogo, si osserva, è vero che il Dm 12 luglio 1990 nell'allegato B (relativo alle raffinerie di olii minerali), sezione B, punto 9 prescrive che la corrente gassosa dell'impianto Claus deve essere convogliata ad un postcombustore, tuttavia occorre osservare che tali linee guida, emanate per il contenimento delle emissioni degli impianti industriali e la fissazione dei valori minimi di emissione, stabiliscono delle prescrizioni che rappresentano una normativa parallela rispetto alla legge-quadro sui rifiuti, che non esclude quest'ultima, ma anzi coesiste con essa.

Alla luce di quanto sopra ampiamente spiegato, pertanto, sull'ambito di applicabilità del decreto Ronchi, per cui "la normativa, sia nazionale che comunitaria, in tema di inquinamento atmosferico completa,.. e non assorbe quella sui rifiuti ma deve coesistere ed integrarsi" (cfr. Cassazione penale Sezione III, 19 marzo 1999, n. 494 cit. supra), deve concludersi che la combustione — o postcombustione che dir si voglia — della corrente gassosa convogliata nell'impianto Claus per tale fine rappresenta un'attività di smaltimento di un rifiuto gassoso derivante da un ciclo industriale, che come tale doveva essere autorizzata ai sensi dell'articolo 28 del Dlgs 22/97, atteso che la combustione costituisce una gestione (o trattamento) del refluo finalizzata al suo smaltimento, non potendosi immettere in atmosfera direttamente solfuro di idrogeno in elevata quantità.

Circa la questione, poi, sopra accennata, se l'impianto Claus faccia parte integrante del processo di raffinazione (v. cons. tec. dif. pag. 45) — come ritengono i consulenti della difesa degli imputati — o meno — come ritengono i consulenti del Pm (v. cons. tec. Pm pag. 69) — si osserva che detta questione è ininfluente ai fini giuridici de quibus, perché non sposta il problema della necessità o meno dell'autorizzazione al trattamento termico del refluo in oggetto.

Si osserva, comunque, che, ad avviso di questo Giudice, da un punto di vista generale l'impianto Claus fa parte del processo di raffinazione, nel senso che è necessaria nella raffineria proprio per il trattamento dei gas ricchi di H2S prodottisi nel ciclo industriale di raffinazione del petrolio (ancorché per i consulenti della difesa, precisamente, si tratti di gas derivanti dalla desolforazione del fuel gas) e, dunque, da un punto di vista generale è esatto quanto affermano i consulenti della difesa.

Da un punto di vista particolare, tuttavia, se l'impianto Claus ha solo la funzione del trattamento termico del refluo gassoso ricco di H2S ai fini della sua trasformazione in zolfo per lo smaltimento, allora deve escludersi — come sostengono i consulenti del Pm — che faccia parte integrante del processo di raffinazione, nel senso che detto impianto, se pur necessario nella raffineria, non è direttamente deputato alla raffinazione degli idrocarburi pesanti e, dunque, sotto tale profilo, è esatto quanto sostengono i consulenti del Pm; ma, si ripete, trattasi di questione puramente nominalistica che non influisce sulla prova dell'imputazione di cui al capo B.4.

Il fatto, poi, che il Da n. 24/17 (e si aggiunge anche il Drs 119 del 2002) prescriva che gli effluenti gassosi dell'impianto Claus debbano essere convogliati ad un postcombustore ed autorizzi dunque, ai sensi del Dpr n. 203/88 l'emissione in atmosfera del gas contenente H2S — successivo al trattamento nel postcombustore dell'impianto Claus — in una misura inferiore a 20 mg/Nmc, significa, soltanto, che tale fase del processo industriale è autorizzata nella parte relativa all'emissione del gas successiva al trattamento ai sensi della normativa sulle emissioni, ma non significa che sia autorizzata nella parte relativa alla gestione del rifiuto gassoso finalizzata allo smaltimento, come richiesto dalla disciplina generale sui rifiuti, che è complementare alla prima, come sopra spiegato.

È, pertanto, impropria l'affermazione della difesa per cui l'impianto Claus in quanto previsto dal Da 24/17 è dunque "previsto ed autorizzato" (v. cons. tec. dif. pag. 45), perché ciò è vero sotto il profilo della normativa sulle emissioni in atmosfera, ma non anche sotto il profilo della normativa sui rifiuti e dunque ciò solo non è sufficiente per considerare l'impianto in regola in base alla normativa vigente (v. sul punto il principio espresso dalla già più volte citata sentenza della Cassazione n. 494/1999).

Infine, i consulenti della difesa ritengono che l'attribuzione fatta dai consulenti del Pm del codice Cer 05 05 01 a detto gas sarebbe impropria perché — a parte la negazione in radice per la prospettiva difensiva di una catalogazione come rifiuto — l'attribuzione di tale codice che individua i rifiuti contenenti zolfo derivanti dai processi di desolforazione del petrolio non corrisponderebbe alla realtà fattuale dell'impianto Claus, nel quale viene inviata la corrente gassosa derivante dalla desolforazione del fuel gas e non del petrolio.

Si osserva al riguardo che l'assegnazione del numero di codice Cer al gas in questione è anch'essa questione ininfluente sul piano giuridico per cui qui si discute, che non sposta i termini del problema della natura del refluo gassoso come rifiuto o meno, e della necessità dell'autorizzazione ai sensi e per gli effetti del decreto Ronchi, anche perché i consulenti del Pm hanno comunque qualificato detto gas come rifiuto speciale non pericoloso; diversamente sarebbe stato se si fosse discusso sulla natura pericolosa o meno del gas in oggetto, perché — in tal caso — diverso sarebbe stato il trattamento giuridico e sanzionatorio.

Dal punto di vista materiale, pertanto, il reato contravvenzionale di cui al capo B.4 dell'imputazione, per le considerazioni sin qui svolte, deve ritenersi provato a carico degli imputati attesa da una parte, la natura di rifiuto del gas di cui si discute e l'assenza dell'autorizzazione ai sensi del Dlgs n. 22/97 al trattamento del medesimo e dall'altra, la circostanza di fatto che il (...) ha assunto la carica di direttore della raffineria di Gela dall'1/11/2000 al 21/12/2001 ed il (...) ha assunto la predetta carica dal 21/12/2001 al 16/4/2004 (v. ordini di servizio nn. 1204, 1106 e 10 in atti).

La natura permanente del reato de quo induce a ritenere esattamente contestata la permanenza nell'imputazione, atteso che trattasi di reato omissivo ove la condotta cessa solo con l'adempimento dell'obbligo prescritto, rappresentato in tal caso, dalla richiesta e dall'ottenimento dell'autorizzazione di cui agli articoli 27 e 28 del Dlgs 22/97.

Dal punto di vista soggettivo, attesa la posizione di garanzia — inerente al ruolo di direttore della raffineria — dell'osservanza di tutte le norme giuridiche che presiedono allo svolgimento dell'attività industriale in oggetto, comprese quelle riguardanti la protezione dell'ambiente e la salute in generale, deve ritenersi provata in giudizio la sussistenza della colpa professionale in capo ai predetti imputati, per non aver chiesto la prescritta autorizzazione, nonostante la sussistenza dell'autorizzazione ai sensi del Dpr n. 203/88.

L'esistenza di copiosa letteratura in materia di qualificazione giuridica come rifiuti dei gas sottoposti a trattamento ai fini dello smaltimento, la sussistenza di pronunce della Corte di Cassazione, oltre che della Corte di Giustizia europea, induce a ritenere che, qualora gli imputati si fossero conformati al parametro dell'agente modello, cioè dell'uomo giudizioso eiusdem professionis et condicionis, parametro imposto dal grado di professionalità dovuta in relazione al ruolo rivestito e dagli standards di conoscenze tecnico-giuridiche esistenti nel caso concreto, non avrebbero commesso il reato contravvenzionale omissivo di cui si discute. L'osservanza dell'obbligo di condotta era, dunque, nel caso concreto esigibile e gli imputati, in quanto titolari di una posizione di garanzia, dovevano e potevano impedire l'inosservanza medesima, qualora si fossero uniformati al parametro della diligenza e perizia dovuto nello svolgimento dell'attività professionale in concreto svolta.

Gli imputati, dunque, non a titolo di responsabilità oggettiva — come ritenuto dalla difesa degli stessi — bensì a titolo di colpa sono chiamati a rispondere del reato di cui al capo B.4 dell'imputazione, proprio perché, qualora avessero agito nel rispetto delle regole precauzionali scritte e non scritte con riferimento alla migliore scienza ed esperienza esistente nel caso concreto, avrebbero certamente adempiuto all'obbligo imposto ed evitato l'inadempimento dell'obbligo di condotta cui erano giuridicamente tenuti.

Sotto il profilo del computo dei termini di prescrizione, è chiaro che la permanenza è cessata per il (...) il 21/12/2001 e per il (...), al più il 16/4/2004 (visto che non è certo dalla documentazione versata in atti se sia questa la data di decorrenza dell'ordine di servizio n. 10 del 16/4/2004). Per il (...), dunque, ancorché prossima, la prescrizione non è, ad oggi, ancora maturata.

 

Capo C — La contravvenzione di cui all'articolo 674 C.p. contestata

La norma incriminatrice di cui all'articolo 674 C.p. prevede due ipotesi: a) il getto o versamento di cose solide o liquide; b) le emissioni di gas, di vapori o di fumo nei casi non consentiti atti a recare disturbo alle persone.

A quest'ultima fattispecie si riferisce la contestazione di cui al capo c) dell'imputazione.

Secondo l'orientamento dominante della giurisprudenza — qui condiviso — si tratta di reato di pericolo presunto, non essendo richiesta la prova di un concreto pericolo per la salute delle persone ed essendo sufficiente l'attitudine della condotta a cagionare effetti dannosi, cioè ad offendere, imbrattare, molestare le persone. La prova dell'attitudine a recare molestia alle persone delle emissioni non deve peraltro essere accertata mediante perizia, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento sulle dichiarazioni testimoniali di coloro che abbiano subito gli effetti negativi delle esalazioni moleste.

Si veda in tal senso Cassazione penale Sezione I, 21 gennaio 1998, n. 739: "ai fini della sussistenza della contravvenzione di cui all'articolo 674 C.p. — getto pericoloso di cose (nel caso di specie, emissioni di vapori) — non si richiede un effettivo nocumento alle persone, in dipendenza della condotta contestata, essendo sufficiente l'attitudine di questa a cagionare effetti dannosi, cioè ad offendere, imbrattare, molestare persone: detta attitudine non deve necessariamente essere accertata mediante perizia, ben potendo il giudice secondo le regole generali, fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali, in particolare, le dichiarazioni testimoniali di coloro che siano in grado di riferire caratteristiche ed effetti delle immissioni, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o di giudizi di natura tecnica, ma si limitino a riferire quanto oggettivamente percepito dai dichiaranti medesimi".

Si veda anche Cassazione penale Sezione VI, 11 aprile 1990, n. 5312: "nell'ipotesi di emissione di gas, di vapori o fumi, punita ai sensi dell'articolo 674 C.p. si configura un reato di mero pericolo, per cui non è necessario che l'emissione stessa provochi un effettivo nocumento, essendo invece sufficiente l'attitudine del gas, del vapore o del fumo emesso ad offendere, imbrattare, molestare le persone"; in tal senso anche Cassazione penale Sezione III, 21 marzo 1998, n. 3531: "la fattispecie tipica del reato di getto pericoloso di cose di cui all'articolo 674 C.p. configura un'ipotesi di reato di pericolo rappresentato dall'idoneità potenziale della cosa versata a molestare o imbrattare le persone in modo percepibile anche se minimo…".

L'interpretazione della giurisprudenza di legittimità della fattispecie incriminatrice in esame ha visto la formazione di due orientamenti.

Il primo, più restrittivo, secondo il quale ai fini della sussistenza del reato è necessario che l'emissione di gas, fumi, vapori molesti avvenga nei casi non consentiti dalla legge, per cui in presenza dell'autorizzazione amministrativa all'esercizio di una determinata attività industriale "ai fini dell'affermazione di responsabilità non basta l'affermazione che le emissioni stesse siano astrattamente idonee ad arrecare fastidio, ma è indispensabile la puntuale e specifica dimostrazione che dette emissioni superino gli standards fissati dalla legge" speciale (come il Dpr 203/88), "mentre quando, pur essendo le emissioni contenute nei limiti di legge, abbiano arrecato e arrechino concretamente fastidio alle persone, superando la normale tollerabilità, si applicheranno le norme di carattere civilistico contenute nell'articolo 844 c.c."; in tal senso Cassazione penale Sezione I, 7 luglio 2000, n. 8094 (udienza del 16 giugno 2000), Meo. Si veda in tal senso anche Cassazione penale Sezione III, 3 marzo 2004, n. 9757, Pannone; Cassazione penale Sezione III, n. 38297 del 18 giugno-29 settembre 2004.

Il secondo e prevalente orientamento interpreta, invece, estensivamente il precetto e ai fini dell'affermazione di responsabilità in ordine al reato in esame anche la sussistenza dell'autorizzazione amministrativa all'esercizio dell'industria e il rispetto dei limiti di emissione indicati dalla normativa speciale (Dpr 203/88), non esclude di per sé la sussistenza del reato, qualora venga dimostrato che dette emissioni moleste superino la normale tollerabilità, poiché il superamento della normale tollerabilità — che è il parametro di legalità di cui all'articolo 844 c.c. a cui occorre fare riferimento (v. sul parametro di legalità Cassazione penale Sezione I, 26 gennaio 1994, n. 781, Scionti) — determina che tale effetto non è consentito dalla legge; si veda in tal senso Cassazione penale Sezione I, sent. n. 25242 del 19 aprile— 12 luglio 2005; Cass pen. Sezione I, sent. n. 760 del 10 dicembre 2002-13 gennaio 2003; Cassazione penale Sezione III, sent. n. 6598 del 3 giugno 1994, Gastaldi; Cassazione penale Sezione I sent. n. 5348 del 26 maggio 1993, Dal Sasso; Cassazione Sezione I, sent. n. 11984 del 6 dicembre 1995, Guarnero; Cassazione penale Sezione I, 2 luglio 1992, n. 7614; Cassazione, pen. Sezione I, 17/11/1993, n. 781, Scionti; Cassazione penale Sezione I, 6/11/1995, n. 11984, Guarnero; Sezione I, 21/1/1998, n. 739, Pm in proc. Tilli; Sezione I, 24/11/1999, n. 12497, De Gennaro). Così in proposito Cassazione Sezione I, n. 25242/2005: "le emissioni di gas, vapori o fumi, ancorché non inquinanti o comunque rientranti nei valori considerati non a rischio dal legislatore, possono egualmente essere "moleste" e integrare, quindi, il reato di cui all'articolo 674 del C.p. , ciò in quanto per la configurabilità di tale ipotesi di reato è sufficiente che le emissioni di gas, vapori o fumi, qualunque ne sia la natura, "superino la normale tollerabilità", essendo tale effetto "non consentito dalla legge", come si evince a contrario dal disposto dell'articolo 844 del codice civile, in forza del quale "il proprietario di un fondo non può impedire le emissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alle condizioni dei luoghi".

Quest'ultima tesi si ritiene condivisibile proprio perché il reato de quo ha come diretto riferimento il valore della persona colpita e prescinde dall'osservanza o meno degli standards fissati per la prevenzione dell'inquinamento; ciò in quanto "le normative antinquinamento non hanno di fatto legittimato qualsiasi emissione inferiore ai limiti tabellari, anche nell'ipotesi in cui non siano attuate le opere di prevenzione e contenimento adeguate al processo tecnologico: conseguentemente anche un'attività industriale autorizzata può dar luogo al suddetto reato qualora siano derivate molestie alle persone dalla mancanza di accorgimenti tecnici possibili e doverosi o dall'inosservanza delle prescrizioni dell'autorità amministrativa, pur nell'osservanza degli standard di cui sopra" (cfr. Cassazione penale Sezione III, sent. n. 6598 del 3 giugno 1994, Gastaldi). In sostanza "l'avvenuta messa in opera dei dispositivi antinquinamento previsti dalla legge, non esclude di per sé, la configurabilità della contravvenzione di cui all'articolo 674 cod. pen., seconda parte, quando di fatto le emissioni di gas, fumi o vapori superino il limite della normale tollerabilità, valutato in relazione agli effetti da esse prodotti in danno dei soggetti che in concreto le subiscono. Un tale superamento, infatti, deve ritenersi contrario alla legge, la quale non può che disciplinare un esercizio normale dell'attività produttiva implicante, come tale, anche la sopportazione di inconvenienti che non eccedano, però, i limiti della normale tollerabilità; inconvenienti, che, in assenza della norma autorizzativa, darebbero luogo all'applicabilità della sanzione penale anche quando i detti limiti non fossero superati, essendo di regola sufficiente, ai fini della sussistenza del reato, in base al testuale tenore della norma, il solo fatto che le emissioni siano atte ad offendere, imbrattare e molestare persone, senza alcun riferimento al limite della normale tollerabilità, contenuto invece nell'articolo 844 c.c." (cfr. Cassazione penale Sezione I sent. n. 5348 del 26 maggio 1993, Dal Sasso).

Secondo questo indirizzo largamente prevalente, recentemente confermato (v. Cassazione Sezione I, n. 25242/2005) e qui condiviso, rientra pacificamente nei "casi non consentiti dalla legge" il superamento della soglia delle emissioni fissata dalla normativa di settore, ma che — anche nei casi di attività esercitata previo regolare rilascio dell'autorizzazione amministrativa e nel rispetto dei limiti tabellari fissati dalla normativa speciale — la contravvenzione è pur sempre configurabile alla stregua dei criteri civilistici, in quanto la molestia dell'emissione non è esclusa per il solo fatto che essa sia inferiore ai limiti massimi di tolleranza specificamente fissati dalla legge. In tale prospettiva, la "normale tollerabilità" viene riferita anche ai parametri di cui all'articolo 844 cod. civ., essendo l'agente tenuto al rispetto non soltanto dei limiti fissati dalle tabelle della normativa speciale di settore ma anche della legge in generale e, quindi, delle prescrizioni del codice civile, con il conseguente obbligo di ricorrere alla "migliore tecnologia disponibile" per contenere al massimo possibile le emissioni moleste, al fine della tutela della salute umana e dell'ambiente quali valori costituzionalmente garantiti.

L'elemento oggettivo del reato di cui all'articolo 674, seconda parte, cod. pen., ha ad oggetto le emissioni moleste, dovendosi far rientrare nel concetto di molestia tutte le situazioni di fastidio, disagio, disturbo e comunque di "turbamento della tranquillità e della quiete" che producono "un impatto negativo, anche psichico, sull'esercizio delle normali attività quotidiane di lavoro e di relazione" (v. Cassazione: Sezione I, sent. n. 1293 del 4/2/1994, Sperotto ed altri; Sezione III, sent. n. 771 del 24/1/1995, Rinaldi; Sezione I, sent. n. 678 del 22/1/1996). In tale prospettiva è stato affermato che può costituire molestia anche il semplice arrecare alle persone preoccupazione ed allarmi generalizzati circa eventuali danni alla loro salute per l'esposizione ad emissioni atmosferiche inquinanti (v. Cassazione, Sezione III: 7/4/1994, n. 6598, Gastaldi; 12/5/2003, n. 20755, Di Grado ed altri).

Deve ricordarsi, inoltre, in proposito, che la contravvenzione di cui all'articolo 674 C.p. costituisce reato di pericolo — come sopra accennato — per cui non è necessario che sia determinato un effettivo nocumento alle persone, essendo sufficiente l'attitudine concreta delle emissioni ad offenderle o molestarle nel senso sopra indicato (v. Cassazione, Sezione I: 15/11/1993, n. 10336, Grandoni; 17/12/1994, n. 12428, Montini; 4/12/1995, n. 11868, Balestra ed altro; 21/1/1998, n. 739, Pm in proc. Tilli; 14/1/2000, n. 407, Samengo; nonché Cassazione Sezione III, 21/3/1998, n. 3531, Terrile).

Le risultanze probatorie dibattimentali hanno consentito di accertare che odori molesti, definiti finanche "nauseabondi", che hanno provocato "nausea, vomito, giramenti di testa" (v. teste Melfa Davide trascr. udienza 31/3/2005 pag. 16), "bruciore agli occhi e mal di testa" (v. teste Di Blasi Saverio trascr. udienza 31/3/2005 pag. 38), sino a determinare difficoltà respiratorie (v. testimonianza Di Blasi), provenienti dalla raffineria di Gela Spa, ex Agip Petroli, hanno cagionato molestia, oltre il limite della normale tollerabilità, alle persone che stabilmente lavoravano nei pressi ove è situato il polo petrolchimico sulla strada statale 115, ma anche più in là, verso il centro abitato, a seconda della direzione del vento.

Il teste Melfa ha, infatti, dichiarato in giudizio di aver ottenuto circa nel 1999 l'autorizzazione all'installazione di un distributore di gas metano con annessa officina e bar proprio sulla s.s. 115 di fronte l'entrata del polo petrolchimico e di aver dopo cinque anni ceduto l'attività per non aver più potuto ulteriormente sopportare l'enorme fastidio derivante dalle emissioni maleodoranti provenienti da detto polo, che sotto forma di polveri acide corrodevano, nel tempo, la vernice delle auto parcheggiate sul piazzale, come la sua auto bianca, divenuta poi gialla. Per circa due volte, il Melfa, accusando forte senso di nausea a causa di detti odori, andò al Pronto Soccorso, ove però non riuscirono a diagnosticare la causa di detti malesseri. Il Melfa ha affermato: "io dal giorno che sono arrivato là, per me è stato un problema questa questione della nausea che mi provocava…" (v. teste Melfa, trascr. udienza 31/3/2005 pag. 21).

Cauchi Gaetano, meccanico, lavoratore dipendente del Melfa dal 1999 sino al 2002, ha confermato la sussistenza di questi cattivi odori assai fastidiosi provenienti dal petrolchimico in quel periodo con una cadenza di circa due volte al mese e ha altresì confermato la circostanza della corrosione che le polveri acide cagionavano sulla vernice delle automobili, dichiarando altresì che il malessere "era avvertito da tutti" e "facevo fatica a respirare" (v. teste Cauchi, trascr. udienza 31/3/2005 pag. 3 e 4).

Detti fastidi erano talmente insopportabili da determinare più volte l'intervento — su segnalazione — dei Carabinieri e dei tecnici della Provincia.

Anche Smorta Crocifisso, elettrauto, lavoratore dipendente del Melfa per circa quattro anni, ha confermato la sussistenza di questa "puzza" che "macchiava la vernice" delle auto, condizionata dalla direzione del vento: "se c'è vento la porta dall'altra parte" (v. teste Smorta, trascr. udienza 31/3/2005 pagg. 11, 12).

Il teste Di Blasi, presidente dell'associazione ambientalista Aria Nuova Onlus, ha riferito che nel dicembre 2001/gennaio 2002 si sentì in tutta la città un cattivo odore, fortissimo proveniente dal polo petrolchimico e che fino al 2003 la "puzza" era giornaliera, "adesso è un po' di meno" (v. teste Di Blasi trascr. udienza 31/3/2005 pagg. 38 e 44).

Il teste Brig. C.C. Gandolfo ha confermato in giudizio che, chiamato ad intervenire dietro segnalazione nel polo petrolchimico più volte, a volte effettivamente riscontrava questo cattivo odore (v. teste Gandolfo trascr. udienza 31/3/2005 pagg. 33).

Alla luce dell'orientamento giurisprudenziale condiviso e sopra illustrato e delle risultanze processuali deve ritenersi provata l'imputazione di cui al capo c) ascritta agli imputati.

Dal punto di vista materiale, infatti, le dichiarazioni rese dai testi in dibattimento — di per sé sole sufficienti a fornire in astratto la prova del reato in esame — hanno consentito di appurare che emissioni (di gas, vapori, fumi) fastidiose ben oltre il limite della tollerabilità — sino a determinare difficoltà respiratorie, senso di nausea e a richiedere l'intervento dei Carabinieri e dei tecnici della Provincia, sino ad indurre il Melfa a cedere la propria attività per non poter più sopportare detti odori e a recarsi al Pronto Soccorso, e sino ad indurre il Cauchi a far fatica a respirare, così come anche il Di Blasi — nel periodo in contestazione sono provenute dalla raffineria di Gela Spa, ex Agip Petroli.

Sotto il profilo della provenienza di detti odori dalla raffineria Spa si premette che nel polo petrolchimico sussistono varie società tra cui l'Enichem Spa, Polimeri europa Spa, tuttavia dalla documentazione del Pm versata in atti è emerso che l'Agip Petroli, ora raffineria di Gela Spa, gestisce i servizi ausiliari di tutto il polo petrolchimico come il servizio di depurazione delle acque (Tas) e le torcie e non vi sono dubbi che dette emissioni intollerabili provengano proprio dalla parte scoperta dell'impianto Tas e dalle torcie, come meglio infra precisato.

Nè può ritenersi — come pure prospettato dalla difesa — che detti odori possano provenire dalla piccola fornace produttrice di tegole posta verso il centro abitato a circa un chilometro dall'azienda del Melfa, perché, a parte la maggiore vicinanza a quest'ultima del polo petrolchimico — attesa la natura dell'odore e l'intensità degli effetti, come risultano descritti dai testi in giudizio — non risulta logicamente possibile che un piccolo forno in cui vengono cotte delle tegole possa determinare tali effetti, quali senso di nausea, corrosione delle vernici delle auto, difficoltà respiratorie, confermati da tutti i testi escussi in giudizio.

Né è possibile ritenere, come pure prospettato dalla difesa, che detti odori e polveri acide corrosive della vernice delle auto, provenissero dall'area di sviluppo industriale di Gela (c.d. Asi), ove vi sono altri insediamenti industriali, atteso che i testi hanno affermato concordemente che detta area è lontana rispetto alla ditta del Melfa, che si trova, invece, proprio di fronte al polo petrolchimico ed atteso che i testi hanno collegato le emissioni di fumi provenienti dalle torcie, gli odori intollerabili e la direzione del vento, nel senso che senza vento detti odori venivano fortemente avvertiti, spirando il vento venivano portati fuori zona.

Sempre dal punto di vista oggettivo, si precisa che, condividendo il Giudicante l'orientamento interpretativo più esteso relativo alla norma incriminatrice de qua, espresso dalla giurisprudenza di legittimità prevalente, ai fini della sussistenza del reato non è rilevante il fatto che l'impianto industriale sia autorizzato e abbia rispettato i limiti di emissione stabiliti dalla normativa speciale (Dpr 203/88), ma è necessario che dette emissioni siano risultate intollerabili secondo il parametro legale della normale tollerabilità di cui all'articolo 844 c.c.; orbene, nel caso di specie, la raffineria di Gela Spa è impianto industriale autorizzato e non risultano provati — né è stato oggetto di contestazione — il superamento dei limiti di emissione stabiliti dalla normativa speciale. Ciò che è stato provato è stata la violazione da parte del (...) dell'articolo 25 comma 2 del Dpr 203/88 per violazione della prescrizione autorizzativa con riferimento al capo A.1. e A.4 oggi illeciti penali estinti per intervenuta prescrizione e la violazione dell'articolo 51 del Dlgs 22/97 da parte di entrambi gli imputati per non aver chiesto e ottenuto l'autorizzazione alla gestione ai fini dello smaltimento dei rifiuti gassosi con riferimento all'impianto Cracking catalitico, Tas e Claus.

Il nesso causale tra le violazioni per cui è intervenuta condanna e le emissioni che hanno provocato molestie oltre il limite della normale tollerabilità non risulta provato in giudizio, ma non è necessario ai fini della prova del reato in contestazione.

Non è certo, infatti, se ad esempio la violazione dell'articolo 51 del Dlgs 22/97 con riferimento alla torcia Teco del Tas, trattandosi di torcia non autorizzata, abbia determinato l'emissione dalla stessa di sostanze nocive o che proprio tali emissioni siano quelle emissioni maleodoranti, acide e irritanti, di cui hanno parlato i testi. L'unica cosa certa è che l'impianto industriale di cui si discute non è conforme alla normativa sui rifiuti e che delle emissioni intollerabili sono fuoriuscite nel periodo in contestazione dagli impianti ausiliari di servizio del polo petrolchimico gestiti dall'Agip Petroli, ora raffineria di Gela Spa

Si osserva in proposito, peraltro, che l'acidità corrosiva delle polveri sulla vernice delle automobili e l'odore nauseabondo delle emissioni capaci sin anche di determinare difficoltà respiratorie risulta assai compatibile con i processi chimici che quotidianamente si realizzano all'interno del polo petrolchimico, ove — si ripete — i servizi ausiliari di smaltimento quali il Tas e le torcie sono gestiti dalla raffineria di Gela Spa; ad esempio, è stato accertato che l'acido solfidrico in parte viene emesso in atmosfera, anche a seguito del trattamento del refluo gassoso nell'impianto Claus (ammesso nella misura inferiore a 20 mg/Nmc). Altre sostanze poi risultanti dalla scissione delle catene degli idrocarburi pesanti nel Cracking — sia pur nel rispetto dei limiti di emissione stabiliti dalla normativa speciale e dall'autorizzazione amministrativa esistente — vengono emesse in atmosfera, senza poi dimenticare che il 5% dell'impianto Tas è scoperto, sia pur per la necessità di evitare un pericolo di esplosione, con immissione diretta in atmosfera delle sostanze volatili che si sprigionano dalla fase acquosa dei flottatori non coperti.

L'esistenza dell'autorizzazione alle emissioni ed il rispetto dei limiti indicati dalla relativa normativa non implica necessariamente, da un lato, che la raffineria sia comunque a norma di legge, in quanto è stato dimostrato che non è conforme alla normativa sui rifiuti e dall'altro, che dette emissioni siano comunque "legali" perché autorizzate. Si è sopra visto, infatti, che per la Suprema Corte devono considerarsi contrarie alla legge quelle emissioni che, sebbene autorizzate e pur rispettando gli standards previsti dalla normativa speciale, determinino il superamento della soglia della normale tollerabilità (v. Cassazione penale sent. n. 25242 del 19 aprile 2005, Guastella; Cassazione penale Sezione I sent. n. 5348 del 26 maggio 1993, Dal Sasso cit.).

Si aggiunge che il (...) ha assunto la carica di direttore della raffineria di Gela dall'1/11/2000 al 21/12/2001 ed il (...), invece, dal 21/12/2001 al 16/4/2004 (v. ordini di servizio nn. 1204, 1106 e 10 in atti); i testi in giudizio hanno dichiarato di aver subito le emissioni intollerabili provenienti dalla raffineria proprio durante il periodo in cui gli imputati hanno rivestito tale qualifica; conseguentemente, dal punto di vista materiale il reato contestato al capo C) della rubrica risulta provato.

Dal punto di vista soggettivo, poi, deve osservarsi che certamente i predetti imputati erano a conoscenza di dette intollerabili emissioni, per via delle numerose segnalazioni ricevute dai Carabinieri e dai tecnici della Provincia, che fecero altrettanti numerosi sopralluoghi — come è stato accertato in giudizio — e quindi delle lamentele del Melfa e dell'associazione ambientalista presieduta dal Di Blasi, pur tuttavia nulla hanno fatto per impedire od ovviare a dette emissioni maleodoranti ed intollerabili, che il Di Blasi ha affermato essere state molto frequenti sino al 2003 e da allora ad oggi più rade.

La conoscenza da parte degli imputati delle emissioni moleste è peraltro stata confermata proprio dal teste Melfa che ha dichiarato in giudizio — rendendo una versione dei fatti precisa, verosimile e senza contraddizioni e dunque credibile — di aver parlato della questione con alcuni preposti della raffineria , tali Arancio e Milano, i quali dissero al Melfa che non sentivano questi odori e che comunque tali cattivi odori provenivano non dalla raffineria , ma dalla fornace di mattoni, posta più in là (v. trascr. udienza 31/3/2005 teste Melfa, pag. 21-22); il Melfa ha altresì dichiarato di non aver mai creduto che detti odori provenissero dalla fornace.

Come è infatti stato chiarito sopra, si ritiene che la natura e l'intensità degli effetti (difficoltà respiratorie, corrosione delle vernici delle auto, odore nauseabondo) sia assolutamente incompatibile con le emissioni di una piccola fornace ove — come ha dichiarato il teste Melfa — non vi entrava nemmeno "il bombolone a metano" (v. trascr. udienza 31/3/2005 teste Melfa, pag. 31).

Deve, pertanto, ritenersi provato il dolo eventuale in capo agli imputati per non aver voluto l'evento, ma aver comunque agito con la propria condotta omissiva — per non aver impedito il verificarsi di dette intollerabili emissioni con l'utilizzo della migliore tecnologia disponibile — accettando il rischio del suo verificarsi.

Vero è che le esigenze dell'economia connesse allo svolgimento delle attività industriali che contribuiscono alla produzione della ricchezza del paese rappresentano degli interessi da salvaguardare e da tutelare, ma la scienza e la tecnica oggi consentono di svolgere dette attività nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile, che certamente appare un obiettivo indicato dal legislatore nazionale, comunitario ed internazionale non raggiunto, se le emissioni dell'impianto industriale in oggetto sono risultate intollerabili.

 

Il trattamento sanzionatorio e il danno ambientale

In ordine al trattamento sanzionatorio imposto al (...), per il quale è stata pronunciata condanna per i reati di cui all'articolo 51 comma 2 del Dlgs 22/97 in ordine ai capi B.1), B.3), B.4) e per il reato di cui all'articolo 674 C.p. di cui al capo C) dell'imputazione, si ritiene lo stesso meritevole della concessione delle circostanze attenuanti generiche, attesa la sua incensuratezza; per l'effetto, valutati gli elementi di cui all'articolo 133 C.p. , ritenuta la sussistenza della continuazione, per essere i reati avvinti dal nesso teleologico, ancorché attribuiti a titolo di colpa o di dolo eventuale, ritenuta in concreto più grave la contravvenzione commessa ai sensi dell'articolo 51 comma 2 Dlgs 22/97 con riferimento al capo B.3) dell'imputazione, ritenendosi che in questo caso la violazione della normativa speciale abbia determinato un maggior pericolo per l'ambiente atteso che non è certa la qualità e la quantità delle sostanze emesse dalla torcia Teco dell'impianto Tas, non autorizzata, e determinata la pena base per il capo B.3) nella misura di 24.000 euro, ritenuta equa e proporzionata, (scelta la pena pecuniaria, anziché quella detentiva pur prevista dalla norma, in ragione della natura della condotta e dell'assenza di pericolosità dell'imputato e disattesa l'opzione sanzionatoria richiesta dal Pm di determinazione della pena base con riferimento alla pena detentiva poi convertita ex articolo 53 della legge n. 689/1981, poiché la pena pecuniaria è già stata prevista dal legislatore nel caso in esame e il meccanismo della conversione sarebbe in questo caso ultroneo), misura prossima al massimo edittale, in considerazione della gravità del pericolo derivante dalla condotta omissiva per l'ambiente e per la salute della collettività, beni primari e costituzionalmente garantiti. Ridotta la pena base di 1/3 per effetto delle circostanze attenuanti generiche nella misura di 16.000 euro, determinato l'aumento per la continuazione nella misura di 5.000 euro per il capo B.1), di 5.000 euro per il capo B.4) e di 10.000 euro per il capo C), si determina la pena finale nella misura di 36.000 euro di ammenda.

In ordine al trattamento sanzionatorio imposto al (...), per il quale è stata pronunciata analogamente condanna per i reati di cui all'articolo 51 comma 2 del Dlgs 22/97 in ordine ai capi B.1), B.3), B.4) e per il reato di cui all'articolo 674 C.p. di cui al capo C) dell'imputazione, si ritiene lo stesso non meritevole della concessione delle circostanze attenuanti generiche, attesa la sussistenza di un precedente specifico per il reato di cui all'articolo 674 C.p. , giusta sentenza emessa ai sensi dell'articolo 444 C.p.p. (che a tali effetti è equiparata ad una sentenza di condanna) il 26/9/1997, irrev. il 17/11/1997. Per l'effetto, valutati gli elementi di cui all'articolo 133 C.p. , ritenuta la sussistenza della continuazione, per essere i reati avvinti dal nesso teleologico, ancorché attribuiti a titolo di colpa o di dolo eventuale, ritenuta in concreto più grave la contravvenzione commessa ai sensi dell'articolo 51 comma 2 Dlgs 22/97 con riferimento al capo B.3) dell'imputazione, ritenendosi che in questo caso la violazione della normativa speciale abbia determinato un maggior pericolo per l'ambiente atteso che non è certa la qualità e la quantità delle sostanze emesse dalla torcia Teco dell'impianto Tas, non autorizzata, e determinata la pena base per il capo B.3) nella misura di 24.000 euro, ritenuta equa e proporzionata, (scelta la pena pecuniaria, anziché quella detentiva pur prevista dalla norma, in ragione della natura della condotta e dell'assenza di pericolosità dell'imputato e disattesa l'opzione sanzionatoria richiesta dal Pm di determinazione della pena base con riferimento alla pena detentiva poi convertita ex articolo 53 della legge n. 689/1981, poiché la pena pecuniaria è già stata prevista dal legislatore nel caso in esame e il meccanismo della conversione sarebbe in questo caso ultroneo), misura prossima al massimo edittale, in considerazione della gravità del pericolo derivante dalla condotta omissiva per l'ambiente e per la salute della collettività, beni primari e costituzionalmente garantiti. Determinato l'aumento per la continuazione nella misura di 5.000 euro per il capo B.1), di 5.000 euro per il capo B.4) e di 10.000 euro per il capo C), si determina la pena finale nella misura di 44.000 euro di ammenda.

 

Alla condanna degli imputati segue per legge l'obbligo del pagamento delle spese processuali, in solido tra loro.

 

Alla condanna segue, altresì, l'obbligo per gli imputati di risarcire le parti civili costituite Italia Nostra Onlus e Amici della Terra Onlus — club di Gela in proprio, ossia per la lesione degli interessi dell'associazione, nonché l'obbligo di risarcire il danno ambientale arrecato allo Stato, per il quale si è costituita parte civile, come sostituto processuale, Italia Nostra Onlus.

Sotto il profilo del danno ambientale occorre ricordare che l'articolo 18 comma 1 della legge n. 349/1986 stabilisce: "qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato.".

L'articolo 18 determina quindi la risarcibilità del danno ambientale indipendentemente dalla violazione di altri diritti individuali quale la proprietà privata o la salute: con tale norma non si vuole infatti tutelare l'ambiente salubre, ma l'ambiente tout court come bene giuridico autonomo ed unitario, a cui la giurisprudenza della Corte Costituzionale con varie sentenze ha ribadito un fondamento costituzionale.

La Corte pronunciandosi sulla costituzionalità dell'articolo 18 della legge 349/86 così definiva l'ambiente "bene immateriale unitario" e affermava: "L'ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (articoli 9 e 32 Cost.) per cui esso assurge a valore primario ed assoluto." (cfr. Corte Costituzionale 30 dicembre 1987, n. 641).

Occorre, poi, osservare (come chiarito nell'ordinanza ammissiva della costituzione delle parti civili resa all'udienza del 13 maggio 2004) che l'articolo 18 comma 5 della legge n. 349/1986 conferisce ex lege alle associazioni preposte alla tutela dell'ambiente riconosciute ai sensi dell'articolo 13 della legge cit. il diritto di intervenire nei giudizi per danno ambientale.

Italia Nostra Onlus ha conseguito tale riconoscimento con decreto ministeriale; deve, pertanto, ritenersi, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata ai sensi degli articoli 2 e 3 Cost., che sussiste in capo alla medesima un potere autonomo di proposizione dell'azione risarcitoria anche in sede penale, e non solo una facoltà di intervento adesivo nel giudizio civile. Il suddetto intervento deve, peraltro, intendersi in senso ampio come possibilità di esercizio di tutte le facoltà processuali riconosciute allo Stato come soggetto danneggiato da un fatto che astrattamente possa qualificarsi come "danno ambientale".

Le associazioni ambientaliste riconosciute ai sensi dell'articolo 13 cit. devono intendersi, in altre parole, come sostituti processuali ex articolo 81 C.p.c. aventi legittimazione ad agire in sede civile e penale per il danno ambientale che opera ipso iure senza necessità di una specifica indicazione nei casi concreti e conferita una volta per tutte da una norma di legge.

Nel caso di specie, dunque, è stata riconosciuta la legittimazione alla costituzione di parte civile dell'associazione di protezione ambientale Italia Nostra Onlus, in sostituzione dello Stato.

È stata altresì riconosciuta la legittimazione di Italia Nostra Onlus e Amici della Terra Onlus a costituirsi parte civile iure proprio e ciò perché la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha più volte, ed anche recentemente, riconosciuto la legittimazione a costituirsi parte civile in un procedimento penale in materia di reato contravvenzionale ambientale non soltanto allo Stato — ed in via concorrente agli enti pubblici territoriali — in nome dell'ambiente come interesse pubblico, ma anche alla persona singola o associata, in nome dell'ambiente come diritto fondamentale di ogni uomo e valore di rilevanza costituzionale e ciò in quanto "il danno ambientale presenta una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto fondamentale all'ambiente di ogni uomo), sociale (quale lesione del diritto fondamentale all'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana ex articolo 2 Cost.) e pubblica (quale lesione del diritto-dovere pubblico spettante alle istituzioni centrali e periferiche)" (cfr. Cassazione, Sez. III, 5 aprile 2002, Imp. K.G.H.L. ed altri; Cassazione, Sez. III, 19 novembre 1996 n. 9837, Locatelli).

Sussiste, infatti, in capo alle associazioni ambientaliste la titolarità di un diritto soggettivo alla salubrità dell'ambiente (la cui lesione comporta un danno aquiliano risarcibile), e un diritto della personalità dell'ente (la cui lesione comporta la facoltà di agire per il risarcimento dei danni morali e materiali relativi all'offesa, diretta ed immediata, dello scopo sociale che costituisce la finalità propria del sodalizio) (cfr. Cassazione, Sezione III, 26 settembre 1996 n. 8699, Perotti e altri); dette associazioni ambientaliste rappresentano infatti enti esponenziali degli interessi diffusi della collettività territoriale di Gela e zone limitrofe.

La natura del danno arrecato alle associazioni ambientaliste costituite iure proprio per la lesione degli interessi diffusi alla salubrità dell'ambiente nel quale vivono i consociati e di cui l'associazione ne rappresenta statutariamente ente esponenziale consente esclusivamente una liquidazione equitativa, che viene, dunque, effettuata integralmente in questa sede, ragione per cui questo Giudice determina detta liquidazione nella misura di 15.000 euro, quale danno arrecato iure proprio a ciascuna associazione ambientalista costituita parte civile.

In ordine alla liquidazione del danno ambientale arrecato allo Stato, nessun elemento è stato fornito in giudizio per consentirne la liquidazione, sia pur equitativamente, ragione per cui si pronuncia una condanna generica rimettendone la determinazione al giudice civile, attraverso l'esercizio di un'autonoma azione.

La condanna degli imputati obbliga altresì gli stessi alla rifusione delle spese di costituzione e difesa delle costituite parti civili che liquida nella misura di 1872 euro per Italia Nostra Onlus e di 1590,75 euro per Amici della Terra Onlus-club di Gela, oltre Iva e Cpa per entrambe come per legge.

Alla suddetta determinazione si è pervenuti nel seguente modo.

Per Italia Nostra: informative telefoniche: 10 € x 5 = 50 €; sessioni in studio con il cliente: 36 € x 5 = 180 €; sessione fuori studio o in studio con colleghi: 72 € x 4 = 288 €; esame e studio: 35 € x 6 = 210 €; indennità di attesa e di accesso ad uffici: 16 € x 10 = 160 €; partecipazione ad attività di ricerca e formazione della prova: 37 €; partecipazione udienze dibattimentali: 52 € x 6 = 312 €; discussione: 225 €; redazione memoria: 202 €; per un totale di 1664 euro, più il rimborso forfettario del 12,5% pari a 208 euro per un totale di 1872 euro, oltre Iva e Cpa come per legge.

Per Amici della Terra, come richiesto (v. nota spese in atti): sessione in studio: 36€ x 2= 72€; esame e studio: 35€ x 6= 210€; indennità di attesa: 16€ x 10= 160€; partecipazione ad attività di ricerca e formazione della prova: 266€; partecipazione udienze: 390€; redazione istanze: n. 2= 316€; per un totale di 1414 euro, più il rimborso forfettario del 12,5€ pari a 176,75 euro per un totale di 1590,75 euro, oltre Iva e Cpa come per legge.

 

Nulla deve disporsi in ordine al sequestro essendo stato già tutto dissequestrato in ordine a questo procedimento.

La natura delle violazioni commesse per cui è intervenuta condanna impone la necessità della comunicazione di copia della sentenza per esteso agli organi amministrativi di controllo della Regione e della Provincia per le determinazioni di competenza.

La complessità delle questioni affrontate ha richiesto la necessità dell'indicazione del termine massimo di novanta giorni per il deposito della motivazione in cancelleria.

 

PQM

 

Visti gli articoli 533, 535 C.p.p.,

Dichiara

(...) e (...) Andrea colpevoli dei reati a loro ascritti ai capi B.1), B.3), B.4) e C) dell'imputazione e ritenuto il vincolo della continuazione ed in concreto più grave quello di cui al capo B.3), concesse le circostanze attenuanti generiche al solo (...) ed applicato l'aumento per la continuazione, condanna (...) alla pena di 36.000 euro di ammenda e (...) alla pena di 44.000 euro di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali in solido tra loro.

Visto l'articolo 538 C.p.p.,

Condanna

(...) e (...) al risarcimento del danno subito in proprio dalle parti civili costituite "Italia Nostra Onlus" e "Amici della Terra Onlus — club di Gela" che si liquida in via equitativa nella misura di 15.000 euro ciascuna; condanna, altresì, i predetti al risarcimento del danno ambientale, subito dallo Stato, per il quale si è costituito in giudizio come sostituto processuale "Italia Nostra Onlus", da liquidarsi in separata sede; condanna, infine, i predetti alla rifusione delle spese di costituzione e difesa delle costituite parti civili che liquida nella misura di 1872 euro per Italia Nostra Onlus e nella misura di 1590,75 euro per Amici della Terra Onlus — club di Gela, oltre Iva e Cpa per entrambe come per legge.

Visto l'articolo 531 C.p.p.,

Dichiara

non doversi procedere nei confronti di (...) in ordine ai reati a lui ascritti ai capi A.1) e A.4) dell'imputazione perché estinti per prescrizione.

Visto l'articolo 530 C.p.p.,

Assolve

(...) e (...) in ordine al reato a loro ascritto al capo A.3) perché il fatto non sussiste; assolve altresì (...) in ordine ai reati a lui ascritti al capo A.1) e A.4) per non averli commessi.

 

Ordina trasmettersi copia della presente sentenza alla Regione Sicilia — settore territorio e ambiente e alla Provincia di Caltanissetta — settore territorio e ambiente per le determinazioni di competenza.

 

Visto l'articolo 544 C.p.p.

Indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione in cancelleria.

 

Gela, 24 marzo 2006

(omissis)

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