News - Editoriali

Milano, 1 giugno 2015

Economia circolare, il futuro del rifiuto/risorsa che deve garantire parità di trattamento

Rifiuti

(Paola Ficco)

Presentiamo l'editoriale di Paola Ficco pubblicato sul numero 229 di giugno 2015 della Rivista Rifiuti — Bollettino di informazione normativa

 

Economia circolare, il nuovo mantra di cui il decisore politico si è appropriato e che, pur con la claudicante prontezza che a tutti i livelli gli è propria, cerca di capire meglio per farsene qualcosa.

Le indimenticabili scene della spartizione dei carichi nella discarica di Calcutta, scolpite dalla penna di Lapierre nel suo magnifico “La città della gioia” sono l’inizio dell’economia circolare. I pensieri arrivano poi.

La Ellen MacArthur Foundation, restituisce l’economia circolare come “un termine generico per definire un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera”.

Attraverso l’economia circolare, dunque ben potrebbe avviarsi un “new deal”, un nuovo corso, un nuovo patto dell’economia intorno al quale coagulare energia per una nuova partenza. Per dirla con Roosevelt (che del “new deal” statunitense fu creatore) “Dobbiamo sforzarci di trasformare una ritirata in una avanzata. ... per dichiarare guerra all’emergenza”. Può essere questo lo spunto per azzerare la speculazione finanziaria (che si fa verbo in pochi secondi a vantaggio di pochi e a detrimento di tutti) riportando l’attenzione sul beneficio di decenni per la società nel suo insieme.

Nel 2011 l’industria italiana ha impiegato 35 milioni di tonnellate di materie prime provenienti dal riciclo dei rifiuti. Questo significa che i rifiuti sono cosa diversa dall’immondizia e che, dunque, sono risorse messe in un posto sbagliato perché sono le miniere contemporanee che consentono la fine dello spreco e un’ipotesi reale di futuro. Un sistema dove tutte le attività, fin dall’estrazione e dalla produzione, sono organizzate in modo che i rifiuti di uno diventino le risorse per un altro. Sembra banale, ma è tutto qua. Invece, nell’economia lineare, finito il consumo termina anche il ciclo del prodotto che diventa rifiuto, costringendo la catena economica a ripetere continuamente lo stesso schema: estrazione, produzione, consumo, smaltimento.

Con la presenza delle economie emergenti, di milioni di consumatori che entrano nella classe media e di mercati interconnessi, l’economia lineare è ormai priva di voce narrante.

La competitività resta allora ancorata alla capacità che si avrà di riuscire a reimmettere risorse nel ciclo produttivo anziché collocarle in discarica. I mercati orientali, nella logica del bisogno e della necessità di sussistenza, lo hanno capito da decenni; la rimetabolizzazione dei rifiuti occidentali ha sottratto risorse a chi si illudeva di essere ricco e ha creato ricchezza in chi era rassegnato a rimanere povero. Porre fine agli sprechi dunque, riportando i rifiuti dentro la produzione industriale e nel consumo.

Ma c’è un “ma”: la disparità di trattamento. Infatti, mentre ci si proietta in percorsi magnifici, si dimentica quanto fino ad ora prodotto da mestieri e dedizioni, da investimenti e forza lavoro specializzata, lasciando tutto nella fantasiosa bizzarria delle definizioni. E allora si assiste al penoso stratagemma di modificare nomi e sequenza di fatti, dove si fa finta che i rifiuti non siano più tali (prevenzione), anche se fino a ieri la loro produzione veniva guardata da una distanza siderale e atterrita. E di qui una giungla normativa tesa a tutelare tutti (ma proprio tutti?) dalla pervasività dei rifiuti. Raccontando a tutti (ma proprio a tutti) che nulla è più delizioso della raccolta differenziata addossata alla casalinga di turno. Insomma, mille architetture capaci di confondere con l’innocenza che dissimula l’arroganza della paura e dell’incompetenza. E così si affacciano eventi privi di direzione, enigmi senza forma, sdoganati dal passaporto della “solidarietà”, dove il rifiuto (con la sua mole di adempimenti, oneri, garanzie finanziarie, autorizzazioni, controlli, patemi e

incertezze) semplicemente non esiste.

Il “dono” o il “conto vendita” sono i legalissimi strumenti attraverso i quali i rifiuti non si formano e si sottraggono risorse alle imprese che del riciclaggio hanno fatto il proprio credo. Un pericoloso smarrimento può attraversare il nostro fragile sistema di gestione dei rifiuti/risorse e di questo il decisore politico deve farsi carico. Immediatamente.

L’economia circolare segna un passaggio epocale, ha il difetto di essere ardito ma il pregio di essere inevitabile.

Occorre allora risalire un sentiero perché i segni predisposti sul terreno sono stati mossi e confusi e le tracce esatte dei confini sono perdute. E allora il rifiuto deve essere liberato dal disagio del “disfarsi”, tornando al concetto di abbandono e di “res nullius”; deve essere affrancato dalla morsa della giurisprudenza Ue che obbliga ad una interpretazione restrittiva della relativa nozione. Questo è il passaggio più difficile, dove aspettano prove inattese e saperi ancora non sufficienti per cambiare le regole del gioco. Eppure va fatto perché il geometrico fluire della realtà dei fatti è semplice: i rifiuti devono essere solo quelli che arrivano in discarica. Il resto è risorsa. Ma fino a quando si avrà il pudore delle parole e il delirio di norme fintamente prudenti, assisteremo alla concorrenza sleale che legalissimi sistemi di raccolta e riciclo di “non rifiuti” (dove gli investimenti sono minimi e per lo più con forza lavoro a basso costo) fanno ad altrettanto legalissimi sistemi che (con un perenne “confronto” con la P.a., investimenti in opere e mezzi, con personale specializzato, soggetto a formazione continua, assistito da piattaforme sindacali), operano sui “rifiuti”. La differenza non è nel materiale; è solo nel nome. Un virtuosismo frutto dell’abilità spettacolare di giocatori professionisti, ai quali si consente di mischiare le carte in tavola per nascondere la forza dirompente di cui dispongono. Del resto, “pecunia non olet”. Però le condizioni per operare devono essere uguali per tutti. Il vero, difficilissimo, banco di prova del decisore politico.

 

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