Rifiuti

Commenti e Approfondimenti

print

Roma, 9 gennaio 2006

La messa in riserva agevolata dei rifiuti, i principi delle politiche pubbliche per la tutela dell'ambiente e la natura giuridica dello standard

(Paola Ficco)

— Premessa

— Gli atti negoziali di volontà e accertamenti costitutivi

— La comparazione tra interessi pubblici confliggenti

— La natura giuridica degli standards

— La messa in riserva agevolata di rifiuti:

a) i limiti alla discrezionalità della P.A.

b) cosa devono garantire gli standards

c) rifiuti di metalli ferrosi e non ferrosi, un esempio

d) le legittime facoltà dell'impresa

e) l'autonomia della messa in riserva

f) il rimedio giurisdizionale

 

Premessa

A distanza, ormai, di anni dall'entrata in vigore della disciplina sul recupero agevolato dei rifiuti, sia pericolosi sia non pericolosi (1) ed alla luce della conseguente esperienza pratica maturata dagli operatori e dalla Pubblica amministrazione, si sente l'esigenza di capire il contributo fornito dalle norme tecniche di riferimento al panorama delle politiche pubbliche poste a tutela dell'ambiente e di collocare le stesse nell'alveo del più generale sistema amministrativo previsto dal nostro ordinamento giuridico.

 

Pertanto, in questa sede, muovendo da una breve riflessione sulla differenza tra atto di assenso preventivo e standards, si elabora un contributo di idee in ordine al valore giuridico ed alla portata di tali standards.

 

Atti negoziali di volontà e accertamenti costitutivi

L'autorizzazione è il provvedimento con cui la Pa, nell'esercizio della sua attività di prevenzione, rimuove, in relazione a una fattispecie concreta, il limite all'esercizio di una facoltà inerente ad un diritto soggettivo o ad una pubblica potestà.

 

Questo perché l'ordinamento giuridico, pur riconoscendo a determinati soggetti il diritto soggettivo di svolgere una determinata attività (es. diritto d'impresa) o di esplicare una pubblica potestà (es. potestà tributaria degli enti locali), si premunisce dal pregiudizio che potrebbe derivare alla collettività dallo svolgimento indiscriminato dell'esercizio di siffatti diritti o potestà, subordinando nella fattispecie concreta l'esercizio dei medesimi ad un atto di assenso preventivo (o autorizzazione).

 

Quindi, gli elementi della fattispecie autorizzativa sono tre e precisamente:

1- esistenza di un limite legale allo svolgimento di un'attività, ricordando, tuttavia, che ciò che è vietato o illecito non è l'attività, bensì l'attività che si svolge in mancanza o in contrasto con l'atto autorizzativo;

2- apprezzamento discrezionale in funzione di prevenzione (cioè la Pa nella concessione dell'autorizzazione, deve stabilire se dallo svolgimento di quell'attività possa derivare un pregiudizio per l'interesse pubblico. Quindi, non deve essere tutelato l'interesse del richiedente, né quello di chi esercita la stessa attività bensì l'interesse pubblico collettivo e generale. L'autorizzazione, dunque, è un atto "libero" e non "vincolato" come, invece, è la "registrazione" (si veda oltre, in ordine alla comunicazione di inizio attività);

3- rimozione del limite legale (effetto specifico dell'autorizzazione che annulla la compressione al libero esercizio delle facoltà inerenti al diritto soggettivo).

 

Il provvedimento di autorizzazione di un'attività pone in essere un rapporto di diritto pubblico (cd. rapporto autorizzatorio) da cui derivano:

  • per il titolare: la facoltà di esercitare l'impresa autorizzata;
  • per la Pa: il potere di vigilanza sull'attività autorizzata.

Rimane sempre salvo il potere della Pa di procedere a:

— annullamento per motivi di legittimità;

— revoca per motivi di opportunità;

— pronuncia di decadenza per sopravvenuto venir meno dei requisiti personali o per il mancato esercizio dell'attività autorizzata.

 

La comunicazione di inizio di attività (anche quella contemplata dal Dlgs 22/1997) trae il suo fondamento dall'articolo 19, legge 241/1990 ("Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi").

 

A ben guardare, nel settore dei rifiuti, mediante l'invio della comunicazione di inizio di attività di cui agli articoli 31 e 33, Dlgs 22/1997 l'atto permissivo è vincolato al mero accertamento di requisiti obiettivi che non consentono alla Pa alcun apprezzamento discrezionale, per la tutela dell'interesse pubblico. Fatto salvo, ovviamente, il divieto impartito dalla Pa di proseguire l'attività laddove non siano rispettare le norme tecniche relative (cioè il Dm 5 febbraio 1998 e il Dm 161/2002).

Pertanto, in tal caso, non si è in presenza di un'autorizzazione, bensì di una registrazione, cioè di un atto vincolato.

Del che è prova il fatto che l'articolo 33, comma 3, Dlgs 22/1997 istituisce un "apposito registro" dove la Provincia iscrive le imprese che effettuano la comunicazione.

 

Quindi,

  • con l'autorizzazione la Pa pone in essere un atto negoziale di volontà;
  • con la registrazione, invece, la Pa si limita ad effettuare un accertamento costitutivo.

Tra gli atti negoziali di volontà si annoverano: ammissioni, autorizzazioni, concessioni, dispense, sussidi

Invece, rientrano nell'alveo degli accertamenti costitutivi: iscrizioni, registrazioni, assegnazioni, esenzioni, sovvenzioni.

 

Perché questo criterio di affidamento tanto elevato che obbliga l'Autorità pubblica nei confronti delle norme tecniche o standards? Affidiamo la risposta al paragrafo successivo.

 

La comparazione tra interessi pubblici confliggenti

La individuazione degli standards (o norme tecniche) rappresenta un momento di profondo rilievo nel processo di ponderazione comparativa degli interessi confliggenti della produzione e della tutela dell'ambiente e, quindi, non può essere rimessa a valutazioni discrezionali, caso per caso effettuate dall'autorità pubblica (sia essa amministrativa o giudiziaria).

 

Pur volendo riservare all'interesse ambientale una posizione di particolare riguardo, nel quadro del principio dello sviluppo sostenibile vanno comunque garantite, in una certa misura, le esigenze produttive, che finirebbero irrimediabilmente compromesse da una prevenzione generale "perfetta" (2).

 

Quando affermiamo questo, non vogliamo fare nostra l'opinione di G. Merli quando all'indomani dell'approvazione della legge 319/1976 (3) affermava che per un certo periodo di tempo, in Italia, come in tutti gli altri Paesi del Mediterraneo interessati dal preoccupante fenomeno del sottosviluppo, non si sarebbe dovuti essere troppo rigidi in tema di politica ambientale.

Piuttosto vogliamo riaffermare che la ponderazione di interessi contrapposti, è particolarmente delicata. In termini di analisi economica si tratta, infatti, sempre di valutare la misura delle diseconomie esterne che, attraverso processi di internalizzazione, possono gravare sulle imprese senza compromettere l'esistenza e la misura di quelle che la collettività è costretta a sopportare per garantire determinati livelli di produzione.

 

Si tratta, come è evidente, di valutazioni sempre difficili, che diventano ancora più difficili quando si devono stabilire standards per gli impianti esistenti, per i quali è necessario prevedere adeguamenti progressivi nel tempo.

 

Comunque, anche laddove si conferisca il massimo grado di protezione possibile alla tutela dell'ambiente, la fissazione degli standards (ma anche la concessione di autorizzazioni) non potrà mai tendere ad una tutela completa ed ottimale dell'ambiente, perché in fin dei conti, si consente di inquinare, anche se poco.

 

Attraverso gli standards, la soluzione ai problemi ambientali sarà sempre in termini di accettabilità. Tale soluzione è definita dalla letteratura statunitense come di second best (4).

 

Tuttavia, pur tenendo presente questa considerazione, è innegabile che, l'indicazione obbligatoria di standards è particolarmente utile per il sistema di tutela ambientale anche alla luce del fatto che essi non sono statici ma possono essere modificati alla luce del progresso scientifico e della esigenza di imporre limiti più restrittivi. Il loro principale vantaggio risiede, sicuramente, nel fatto che assicurano, a parità di condizioni, parità di trattamento tra le imprese dello stesso settore, poiché pongono chiaramente la distinzione tra quanto è lecito e quanto, invece, non lo è.

 

La natura giuridica degli standards

Il termine standard, già usato nell'ambito delle discipline economiche e tecniche, ha assunto per la prima volta rilevanza giuridica in materia ambientale con la legge statunitense del 1970 "Occupational safety and health Act" emanata per garantire la sicurezza e la salubrità dei luoghi di lavoro. Da quel momento, per standards si indicano le norme che incidono sui modi di esercizio dei vari processi produttivi e si afferma che lo standard non è solo un limite di concentrazione di sostanze tossiche ma ogni obbligo imposto agli imprenditori per il raggiungimento di accettabili livelli di salubrità dei luoghi di lavoro e di quelli esterni e di tutela dell'ambiente. Di lì, negli Stati Uniti prima ed in Europa dopo, la fissazione degli standards è rimessa di volta in volta alla Pubblica amministrazione (variamente articolata) che deve attenersi a parametri legislativamente prefissati (5).

 

Molti si sono occupati della classificazione degli standards (6), anche verificandone la validità sotto il profilo della tutela ambientale, ma pochi si sono occupati di individuare il tratto caratterizzante della loro natura giuridica che, invece, è determinante poiché risiede nella idoneità degli standards a costituire limiti alla discrezionalità del pubblico potere al quale è attribuita la competenza di autorizzare o meno l'esercizio di un determinato impianto produttivo.

 

Questo significa che a fronte della esistenza degli standards, dall'operato della Pubblica amministrazione viene meno quel potere discrezionale posto in essere in funzione di prevenzione che è tipico di ogni atto di assenso preventivo, poiché atto di assenso preventivo non c'è. Quindi, un impianto che opera nel rispetto degli standards può subire limitazioni alla sua operatività solo a seguito di un provvedimento legislativo o di un atto generale che sia previsto da quel provvedimento legislativo, al fine di rispettare il principio della riserva di legge relativa.

È solo, dunque, lo strumento legislativo (e non la ordinaria attività della Pa) che può imporre limitazioni alla produzione industriale (che risponde pur sempre al principio costituzionale della libertà di iniziativa economica) e, quindi, stabilire livelli di accettabilità per quanto riguarda la contaminazione di beni ambientali, anch'essi tutelati da norma di rango costituzionale.

 

La messa in riserva agevolata di rifiuti

Ciò posto con riguardo sia alla differenza tra autorizzazioni e accertamenti costitutivi sia alla portata, al fondamento ed alla natura giudica degli standards è opportuno calare tali riflessioni nell'ambito della messa in riserva agevolata di rifiuti che, più di ogni altra fattispecie di settore (se si fa salva la definizione di rifiuto), risente di letture personalistiche e non di rado fantasiose.

 

È appena il caso di ricordare che la messa in riserva è una operazione di recupero che si sostanzia nello stoccaggio di rifiuti destinati a recupero. Essa è definita come tale (operando di rinvio all'allegato C, Dlgs 22/1997) dall'articolo 6, comma 1, lett. l), Dlgs 22/1997.

 

Come tutte le operazioni di recupero, la messa in riserva può essere condotta in forma ordinaria (cioè con autorizzazione regionale ex articoli 27 e 28, Dlgs 22/1997) oppure in forma agevolata (cioè inviando apposita comunicazione ex articolo 33, Dlgs 22/1997 alla Provincia e pagando un determinato importo per il diritto di iscrizione nell'apposito registro).

 

Certamente, la scelta in ordine al regime da seguire compete all'impresa interessata. Tuttavia, laddove l'impresa scelga di optare per il regime agevolato, essa è obbligata all'osservanza non di regole tecniche dettate da un'autorizzazione (che non esiste) bensì da quelle dettate da uno standard. Nel caso di specie, tale standard è dato dalle regole dettate dal Dm 5 febbraio 1998 (per il recupero agevolato dei rifiuti non pericolosi) e dal Dm 12 giugno 2002, n. 161 (per il recupero agevolato dei rifiuti pericolosi).

 

a) i limiti alla discrezionalità della Pa: i due citati decreti rappresentano lo strumento attraverso il quale l'ordinamento giuridico italiano, utilizzando la possibilità concessa dalla direttiva 91/156/Cee sui rifiuti, ha comparato due interessi pubblici confliggenti: la tutela dell'ambiente e la produzione industriale. Attraverso tale disciplina dunque è venuta completamente meno la funzione di prevenzione delle Province mediante l'emanazione di un provvedimento discrezionale contente un altrettanto discrezionale apprezzamento.

Tale funzione di prevenzione, infatti, è assolta dai due decreti sul recupero agevolato, come si evince dalla lettera dell'articolo 31, comma 3, Dlgs 22/1997, il quale stabilisce che essi decreti: "devono garantire che i tipi o le quantità di rifiuti ed i procedimenti e metodi di smaltimento o di recupero siano tali da non costituire un pericolo per la salute dell'uomo e da non recare pregiudizio all'ambiente".

 

Quindi, la valutazione discrezionale sulla capacità di tutela dell'interesse pubblico da parte dei metodi di recupero è stata effettuata a monte dal Legislatore tramite gli standards contenuti nei due Dm sul recupero agevolato, senza possibilità di replicare altrove tale valutazione.

 

Tale valutazione discrezionale è stata operata dal Legislatore su:

— provenienza, tipi, caratteristiche dei rifiuti recuperabili in modo agevolato (quindi anche messi in riserva);

— condizioni specifiche di impiego (articolo 33, comma 2, Dlgs 22/1997).

 

Quello che il Legislatore richiede alle Autorità pubbliche è una "cooperazione" sulla verifica del rispetto degli standards (articolo 33, comma 1, Dlgs 22/1997: "A condizione che siano rispettare le norme tecniche e le prescrizioni…"); tanto che il mancato rispetto degli standards accertato dalla Provincia comporta il divieto di inizio o di prosecuzione dell'attività (articolo 33, comma 4, Dlgs 22/1997); ma solo il mancato rispetto di quanto stabilito nei Decreti sul recupero agevolato, determina tale conseguenza, non altro. Il che accade proprio in virtù di quella valutazione discrezionale effettuata a monte dal Legislatore fondata, sotto il profilo scientifico, tutta ed unicamente sulla natura giuridica degli standards che, si ripete, risiede nella loro capacità di costituire limiti alla discrezionalità del pubblico potere.

 

In virtù della esistenza dei citati standards, dunque, le Province non devono più stabilire se dallo svolgimento di una determinata attività possa derivare un pregiudizio per l'interesse pubblico. Questo perché l'interesse pubblico generale e collettivo è già tutelato a monte da quegli standards.

 

La Provincia non deve, infatti, eliminare l'ostacolo giuridico al compimento dell'attività da parte di chi (essendo titolare del diritto soggettivo o del potere) ha la facoltà di porla in essere. L'ostacolo è rimosso a monte dagli standards a condizione, ovviamente, che l'operatività avvenga nel loro pieno rispetto.

 

La Provincia non deve (proprio perché non può) porre alcun limite all'esercizio di una facoltà inerente il diritto soggettivo di recuperare rifiuti in una determinata forma; di ciò si sono già fatti carico gli standards, il cui rispetto fa venir meno la compressione al libero esercizio delle facoltà inerenti a quel diritto soggettivo. Tale Provincia deve solo porre in essere un controllo del rispetto dello standard, mediante un cd. "atto vincolato". Vincolato da cosa? Dagli standards, appunto, senza scendere (poiché non facoltizzata al riguardo) nel loro merito tecnico.

 

Quindi deve accertarsi del rispetto degli standards da parte di una determinata impresa senza scendere nel merito se una determinata metodica individuata dagli standards medesimi possa essere o meno effettivamente dannosa per l'ambiente.

 

b) cosa devono garantire gli standards: quanto richiesto dall'articolo 4, direttiva 91/156/Cee (puntualmente ripreso dall'articolo 1, Dm 5 febbraio 1998 e dall'articolo 1, Dm 12 giugno 2002, n. 161) e precisamente: il recupero agevolato non deve

— creare rischi per l'acqua, l'aria, il suolo, la fauna, la flora;

— causare inconvenienti da rumori od odori;

— danneggiare il paesaggio e i siti di particolare interesse.

 

Sono queste le finalità perseguite dalla disciplina di dettaglio declinata dagli standards attraverso le regole ivi indicate, senza necessità di aggiunte cautelative ulteriori da parte della Provincia; diversamente argomentando verrebbero meno:

a) la natura giuridica della iscrizione nel registro provinciale del recupero (accertamento costitutivo);

b) la natura giuridica degli standards (idoneità a costituire limiti alla discrezionalità del pubblico potere);

c) la funzione principe degli standards (ponderazione comparativa degli interessi confliggenti della produzione e della tutela dell'ambiente sottratta, dunque, a valutazione discrezionali, caso per caso effettuate dall'autorità pubblica).

 

c) rifiuti di metalli ferrosi e non ferrosi, un esempio: si prenda il caso, ad esempio, del recupero agevolato dei rifiuti rappresenati da metalli ferrosi e non ferrosi, dove i rispettivi punti relativi all'attività di recupero del Dm 5 febbraio 1998 (3.1.3 e 3.2.3), dal cui esito derivano le materie prime e/o i prodotti, individuano (in entrambi i casi): "trattamento a secco o a umido" per l'eliminazione di una serie di impurezze.

 

Come è evidente, lo standard (e l'Ordinamento positivo che li ha voluti e legittimamente emanati) richiede a questi trattamenti (alternativi tra loro) di eliminare gli oli, i Pcb, i solventi ecc. al fine di ottenere le materie prime, ma non indica "come" fare il trattamento. Perché ? Perché lo fa a monte, in quanto questi (e tutti gli altri) trattamenti non devono.

— creare rischi per l'acqua, l'aria, il suolo, la fauna, la flora;

— causare inconvenienti da rumori od odori;

— danneggiare il paesaggio e i siti di particolare interesse.

 

Ogni indicazione tassativa di determinati impianti o tecnologie per effettuare il trattamento sarebbe stata fuorviante per il mercato, poiché avrebbe privilegiato o detratto quanto già esistente ed avrebbe indirizzato il futuro. Gli standards, infatti, non stabiliscono le tecnologie bensì le tecniche (cioè attività e suoi metodi di esercizio), esattamente al pari della disciplina sull'Ippc, dove le BAT non sono le migliori tecnologie disponibili, bensì le migliori tecniche disponibili da seguire per ottenere un determinato risultato, prefissato dal Legislatore tramite lo standard.

 

Del resto, non è un caso che al recupero agevolato dei rifiuti la disciplina sull'Ippc di cui al Dlgs 59/2005 non sia applicabile. Non potrebbe esserlo, a meno di non abrogare la disciplina sul recupero agevolato di rifiuti.

 

Tale situazione è resa evidente da tutti i capitoli dei due Decreti sul recupero agevolato per tutti i rifiuti ivi contemplati, dove la finalità ambientale e sanitaria dell'azione di recupero è stabilita dall'articolato (assenza di rischi, inconvenienti e danni). Da ciò consegue, ovviamente, una finalità economica: recuperare al ciclo produttivo o di consumo qualcosa.

 

È appena il caso di sottolineare che la messa in riserva sia nel caso dei rottami sia in tutti gli altri casi è propedeutica ai vari trattamenti (a caldo, a freddo, ecc.) nel senso che la massa critica dei rifiuti prima viene stoccata (messa in riserva) e poi recuperata con i trattamenti descritti nei standards fatti propri dai decreti.

 

Quindi, stante la propedeuticità (nel senso che non si può dare luogo a recupero senza stoccaggio) della messa in riserva (compiutamente disciplinata nell'articolato del Dm 5 febbraio 1998 e del Dm 161/2002), essa non è mai successiva, ma sempre preventiva, al trattamento e come tale non può essere inibita (purché conforme al citato articolato) laddove (in ipotesi più che astratta), invece, il trattamento venisse vietato nel suo prosieguo.

 

d) le legittime facoltà dell'impresa: quanto precede offre lo spunto per ricordare (laddove mai ce ne fosse ancora bisogno) che per gli impianti completi (stoccaggio + trattamento) di recupero di rifiuti non pericolosi, l'ordinamento positivo non prevede alcun obbligo di mettere in riserva (stoccare) il rifiuto per poi necessariamente trattarlo in loco. A corollario di tale sistema, in quegli impianti: il rifiuto non "deve" necessariamente essere allontanato dall'impianto ricevente nelle medesime condizioni alle quali esso è stato ricevuto.

Infatti, tale condotta è solo eventuale, nel senso che l'impianto (completo) ricevente:

— "può" mettere in riserva il rifiuto ed allontanarlo così come è stato ricevuto (cioè non effettuare trattamento);

— "può", però, anche scegliere, in esito allo stoccaggio, di trattare il rifiuto nei modi e nelle forme consentite dagli standards dettati dalla disciplina sul recupero agevolato.

 

e) l'autonomia della messa in riserva: quanto fin qui assunto ci offre lo spunto per ricordare che l'articolo 33, comma 12-ter, Dlgs 22/1997 sui rifiuti sancisce in modo inequivocabile e diretto la "autonomia" della messa in riserva dei rifiuti non pericolosi rispetto alle altre operazioni di recupero (nel senso che essa non deve coesistere con il trattamento nel medesimo impianto), laddove dispone che il Dm 5 febbraio 1998 stabilisce "le caratteristiche impiantistiche dei centri di messa in riserva non localizzati presso gli impianti dove sono effettuate le operazioni di riciclaggio e di recupero individuate ai punti da R1 a R9 nonché le modalità di stoccaggio e i termini massimi entro i quali i rifiuti devono essere avviati alle predette operazioni".

 

Tale lettura relativa all' "autonomia" della messa in riserva rispetto alle altre operazioni di recupero (a voler tacere di -condivisibili— note ministeriali che, però, essendo prive di qualsivoglia rango normativo ed interpretativo non possono costituire utile riferimento (7)) trova un non inutile e perentorio conforto nella sentenza Corte di Giustizia europea 25 giugno 1998 (sez. VI, C-192/96) la quale, ha tra l'altro espresso il seguente (vincolante) principio interpretativo: "il riferimento alla messa riserva di materiali di cui al punto R13 dell'allegato IIB della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE, vale non solamente per i casi in cui il deposito viene effettuato presso l'impresa nella quale devono essere eseguite le restanti operazioni menzionate in tale allegato, ma anche per quelli in cui il deposito di materiali precede la spedizione verso una siffatta impresa, indipendentemente dal fatto che quest'ultima sia ubicata all'interno o all'esterno della Comunità" (punto 2a del dispositivo).

 

Quindi, la messa in riserva si può configurare sia presso l'impianto di trattamento, sia presso un impianto deputato al mero stoccaggio e, quindi, sfornito di processo di trattamento (ovviamente, a prescindere dal regime autorizzatorio utilizzato, che rimane nella discrezionalità dell'impresa e nel potere di controllo della Pa).

Il che, a mente dell'articolo 33, comma 12-bis, Dlgs 22/1997 è operante solo ed esclusivamente per i rifiuti non pericolosi.

 

Il tutto, a prescindere dalle tecnologie impiegate, ma utilizzando quelle tecniche che secondo gli standards consentono all'attività di dispiegarsi al meglio per raggiungere la finalità della norma che, si ripete, non è mai quella di privilegiare o deprimere l'uso di una tecnologia rispetto ad un'altra, bensì quella di favorire ed incentivare l'uso di una tecnica (cioè il modo di esercizio di un'attività) capace di tutelare l'ambiente e la salute. In tal modo sottraendo ad ogni sindacato quanto contemplato dalla regola tecnica contenuta nello standard. È qui, infatti, che è contenuto il momento conclusivo di quel procedimento di comparazione tra interessi pubblici confliggenti sul quale ci è soffermati più sopra.

 

f) il rimedio giurisdizionale: laddove tale momento conclusivo non voglia o non possa esse condiviso dai destinatari della norma o dalla Pa esiste, tuttavia, il rimedio giurisdizionale del ricorso al giudice amministrativo nei tempi e nelle forme stabiliti (si pensi al punto 3, all. 2, suballegato 1, Dm 5 febbraio 1998 sugli scarti di origine biogenica recuperati come combustibile sospeso dal Tar Lazio con ordinanza 8 aprile 1999, n. 1023). Diversamente, per tutti i motivi su esposti, la Pubblica amministrazione deve "accettare" senza alcun potere di sindacato, lo standard. In caso contrario, essa si espone inevitabilmente alle ritorsioni giudiziarie consentite dall'ordinamento sostanziale e di rito processuale, proprio in virtù della natura giuridica dello standard la quale risiede nella sua funzione di "limite" alla valutazione discrezionale del Pubblico potere.

 

(1) Il recupero agevolato dei rifiuti non pericolosi è disciplinato dal Dm 5 febbraio 1998; il recupero agevolato dei rifiuti pericolosi è disciplinato dal Dm 12 giugno 2002, n. 161. Il Dm 17 novembre 2005, n. 269 disciplina il recupero agevolato di alcuni rifiuti pericolosi provenienti dalle navi.

(2)Per G. Calabresi la prevenzione generale "perfetta" in materia ambientale è solo un mito ("Il costo degli incidenti e responsabilità civile", Milano, 1997, p. 53)

(3)G. Merli "L'approccio italiano ai problemi ecologici, con particolare riguardo alla legislazione sulle acque" in "Impresa, ambiente e Pa:, I, p. 57)

(4)Utilizzato in particolare da G. Calabresi in "La responsabilità civile come diritto della società mista", Milano 1988, p. 515. Si veda anche G. Acquarone "I principi delle politiche pubbliche per la tutela dell'ambiente", in Studi diretti da F.G. Scoca, Torino, 2003, p. 397.

(5) Cfr, L. Violini "Le questioni scientifiche controverse nel procedimento amministrativo", Milano, 1996, p. 43

(6) Es plurimis Dente, Knoeffel, Lewansky, Mannozzi, Tozzi, "il controllo dell'inquinamento atmosferico in Italia: analisi di una politica regolativi", Roma, 1984. Secondo i quali gli standards possono essere relativi a: sorgente dell'inquinamento (standards di prodotto, di processo e di emissione), incidenza sul generale ambiente esterno (standards di qualità e guida) o su di un bene ambientale specificamente individuato (standards di esposizione e biologici).

(7) Si pensa alla (famosa tra gli addetti ai lavori -ed unica-) nota sulla messa in riserva dell'Ufficio legislativo, Ministero dell'Industria, del Commercio e dell'Artigianato 20 maggio 1998, prot. 15257 F 1-2, diretta (ex plurimis) all'Ufficio legislativo del Ministero dell'Ambiente, del Ministero della Sanità e del Ministero della Risorse Agricole oltre che al DAGL della Presidenza del Consiglio dei Ministri. La nota è reperibile liberamente in www.retambiente.it — Rifiuti — Documentazione complementare -. Tuttavia, per comodità di consultazione si ritiene opportuno riportarne il seguente passo: "l'articolo 6 del Dm 5 febbraio 1998 sul recupero dei rifiuti non pericolosi, articolo dedicato alla "messa in riserva", condiziona l'applicazione delle relative procedure agevolate solo ed unicamente alla menzione dei rifiuti ed all'osservanza delle condizioni ivi individuate. Tra queste non figura la menzione esplicita della "messa in riserva" nell'ambito delle attività di recupero che anzi, tale articolo 6, unitamente all'articolo 7 (quantità), regolamenta in modo generale ed autonomo.

Quanto precede, dimostra "per tabulas" che le attività di "messa in riserva", con l'applicazione delle procedure agevolate di cui all'articolo 33, Dlgs 22/1997 e successive modifiche e integrazioni, possono essere intraprese per tutte le tipologie di rifiuti indicate negli allegati al Dm 5 febbraio 1998 sul recupero dei rifiuti non pericolosi a prescindere dalla menzione esplicita dell'attività nei singoli punti delle varie tipologie di rifiuti individuati dal citato Dm 5 febbraio 1998.

Pertanto, ad avviso della scrivente Amministrazione, in ragione di quanto precede e soprattutto della sua regolamentazione autonoma recata dagli articoli 6 e 7 del Dm 5 febbraio 1998, la "messa in riserva" può essere condotta con procedura semplificata anche in modo autonomo e disgiunto solo a condizione che si riferisca ai "rifiuti non pericolosi individuati e destinati ad una delle attività comprese negli allegati 1 e 2" al Dm 5 febbraio 1998 cit. Resta inteso che dovranno essere rispettate le condizioni quali-quantitative indicate ai medesimi articoli 6 e 7.

Quanto precede, del resto, è confermato "a contrario" dall'articolo 33, comma 12 bis, Dlgs 22/1997 e successive modifiche e integrazioni, articolo riferito alla "messa in riserva" dei rifiuti pericolosi individuati, condotta in luogo diverso da quello in cui è ubicato l'impianto di recupero. Infatti, in questo caso, si ritornerà all'autorizzazione regionale, anche in presenza dell'individuazione dei rifiuti ad opera del futuro decreto. Si enuclea così una disciplina speciale rispetto a quella generale che impronta tutto il Dlgs 22/1997 e successive modifiche e integrazioni; infatti, laddove la "messa in riserva" non si potesse condurre in modo agevolato anche al di fuori dell'impianto di recupero, il Legislatore non avrebbe avuto alcun bisogno di inserire l'articolo 33, comma 12 bis.

Non solo, ma l'articolo 33, comma 12 ter Dlgs 22/1997, dopo aver fatto salvo il disposto del precedente comma 12 bis, impone la previsione delle prescrizioni alle quali sottoporre i centri di "messa in riserva" non localizzati presso gli impianti di riciclaggio e di recupero, le modalità di stoccaggio e i termini massimi entro i quali avviare i rifiuti a tali operazioni: il che è stato adempiuto per i rifiuti non pericolosi con gli articoli 6 e 7 Dm 5 febbraio 1998.

Va anzi rilevato che, proprio al fine di evitare abusi, le prescrizioni relative ai centri di "messa in riserva" contenute nei citati articoli 6 e 7 sono state estese anche ai centri di "messa in riserva" localizzati all'interno dell'impianto dove avvengono le operazioni di recupero.

Una lettura diversa da quanto sopra, giustificherebbe solo una paralisi dell'attività di recupero e farebbe venir meno:

— i presupposti di semplificazione che hanno improntato la stesura del Dlgs 22/1997 e successive modifiche e integrazioni, segnatamente individuati nella legge 52/1996 (cd. "legge Bassanini") nell'ambito delle premesse al citato provvedimento;

— la logica propedeusi del recupero rispetto allo smaltimento così come individuata negli articolo 4 e 5 del Dlgs 22/1997 e successive modifiche e integrazioni. In tal modo contraddicendo in termini uno dei principi fondamentali non solo delle direttive europee di settore ma dello stesso Dlgs 22/1997.

(Omissis)"

Annunci Google
  • ReteAmbiente s.r.l.
  • via privata Giovanni Bensi 12/5,
    20152 Milano

    Tel. 02 45487277
    Fax 0245487333

    R.E.A. MI - 2569357
    Registro Imprese di Milano - Codice Fiscale e Partita IVA 10966180969

Reteambiente.it - Testata registrata presso il Tribunale di Milano (20 settembre 2002 n. 494) - ISSN 2465-2598