Rifiuti

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Roma, 7 luglio 2004 (Ultimo aggiornamento: 12/07/2010)

Nozione di "rifiuto": le conclusioni della Commissione parlamentare d'inchiesta sui rifiuti sono disancorate dalla realtà legislativa e giurisprudenziale comunitaria

(Paola Ficco)

 

Premessa

Giovedì 1° luglio 2004, la Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha approvato — ed inviato ai Presidenti di Camera e Senato — un corposo documento volto alla ridefinizione della nozione giuridica di rifiuto, al fine di sanare i contrasti interpretativi e i diversi orientamenti assunti dall'autorità giudiziaria e di garantire un adeguato livello di protezine dell'ambiente, contrastando inoltre le ecomafie.

 

Letta così, la notizia non può fare che piacere; quello che però lascia perplessi è la sostanza delle conclusioni, e precisamente: esclusione dalla nozione di rifiuto solo per precise categorie di materie e di prodotti purché certamente riutilizzate.

 

Insomma, la Commissione chiede una definizione "caso per caso" dimenticando che:

— la legge deve essere formale ed astratta;

— le sentenze della Corte di Giustizia europea sull'argomento;

— l'obbligatorietà di tali sentenze per tutti gli ordinamenti positivi dello Spazio comune.

 

Un breve "ripasso" dell'articolo 14

L'articolo 14, Dl 138/2002, convertito, con modificazioni, in legge 178/2002 fornisce, stando alla sua epigrafe, l'interpretazione autentica del termine "rifiuto". La declinazione dell'articolo, però, fa tutt'altro, infatti,

  • al suo comma 1, interpreta le parole "si disfi", "abbia deciso" e "abbia l'obbligo di difarsi" di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), Dlgs 22/1997;
  • al suo comma 2, esclude dalle fattispecie di cui all' "abbia deciso" ed all' "abbia l'obbligo di disfarsi" beni o sostanze o materiali residuali di produzione o di consumo laddove essi versino in una delle seguenti condizioni:

— riutilizzo potenziale ed effettivo ed oggettivo "tal quali", cioè senza alcun trattamento preventivo e senza recare pregiudizio all'ambiente "nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo";

— riutilizzo potenziale ed effettivo ed oggettivo dopo un trattamento purché esso sia cosa diversa dal "recupero" di cui all'allegato C, Dlgs 22/1997, "nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo".

 

Ciò ricordato, e ricordato altresì che in tale allegato C i termini "riciclo" e "recupero" sono usati in modo promiscuo (es. "R4 riciclo/recupero dei metalli e dei composti metallici"), si osserva che, nella pratica, è difficilissimo distinguere un "trattamento" da una operazione di "recupero" se è vero, come è vero, che il trattamento altro non è che un'operazione posta in essere sul rifiuto al fine di renderne più agevole la successiva operazione di recupero che "nobiliterà" il rifiuto facendolo assurgere al ruolo di "materia prima" o di "prodotto".

 

Del che è prova la sentenza 19 giugno 2003 (C-444/00, che pronunciata con riguardo agli imballaggi ed ai rifiuti di imballaggio viene estesa dalla Corte anche agli altri tipi i rifiuti -punto 2 del dispositivo-) con la quale la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha stabilito che "la nozione di riciclaggio …. Deve essere interpretata nel senso che essa non comprende il ritrattamento dei rifiuti di imballaggio contenenti metallo quando questi sono trasformati in una materia prima secondaria…ma riguarda il ritrattamento di tali rifiuti quando sono utilizzati per la fabbricazione di lingotti, lamiere o bobine di acciaio. Tale interpretazione non cambierebbe se si prendessero in considerazione le nozioni di "riciclaggio" e di "rifiuto" cui si riferisce la direttiva 75/442/Cee" (successivamente modificata dalla direttiva 91/156/Cee).

 

Come appare evidente, la Corte Ue ha ritenuto che solo il riprocessamento industriale dei rifiuti per produrre beni o materiali è riciclaggio (o recupero) e che tutte le operazioni che precedono tale riprocessamento (o "ritrattamento") sono inerenti a cose che non possono cessare di essere considerate "rifiuti". Il che è detto a chiarissime lettere ai punto 73 e 75 della richiamata sentenza, e precisamente:

 

"73. Orbene, interpretando la definizione di riciclaggio di cui all'articolo 3, punto 7, della direttiva 94/62/Ce nel senso che il ritrattamento dei rifiuti di imballaggio deve consentire di ottenere un materiale nuovo o un prodotto nuovo, dalle caratteristiche paragonabili a quelle del materiale da cui derivano, si assicura un elevato livello di tutela dell'ambiente";

 

"75. Inoltre, è ancora solo in questa fase che i materiali in questione cessano di essere qualificati come rifiuti di imballaggio e che, pertanto, i vari controlli sui rifiuti previsti dal legislatore comunitario perdono la loro ragion d'essere. Infatti, poiché il riciclaggio comporta la trasformazione dei rifiuti di imballaggio in un materiale o in un prodotto nuovo, dalle caratteristiche paragonabili a quelle del materiale di provenienza, il risultato di tale trasformazione non può più essere considerato "rifiuti di imballaggio".

 

Le considerazioni effettuate dalla Corte Ue riflettono il dato del reale e restituiscono la fondamentale differenza che la fattispecie del riciclaggio traccia rispetto a quella del recupero e del riutilizzo, così come essi si configurano.

Infatti, a ben guardare, nel recupero (a prescindere dalle nomenclature legislative) confluiscono due concetti fondamentali: riutilizzo (inteso anche come reimpiego) e riciclaggio.

Se questo è vero da un punto di vista teorico, è altresì vero che troppo spesso, nella pratica i termini "riutilizzo", "riciclaggio" e "recupero" si confondono con una leggerezza ormai non più ammissibile.

La differenza fra i tre momenti è nodale anche ai fini di una corretta lettura delle norme che ne informano la praticabilità; tali metodiche concretano gli estremi di condotte che solo all'apparenza sono simili, pur potendo a volte confluire l'una nell'altra. Infatti:

riutilizzo: si ha quando si verifica l'utilizzo ripetuto e reiterato di un prodotto per il medesimo scopo (es. bottiglie di vetro usate che, dopo essere state lavate, possono essere nuovamente riempite);

• riciclaggio: si ha quando i residui vengono reintrodotti nel ciclo produttivo di provenienza (es. il cocciame di vetro viene reinserito nel ciclo produttivo del vetro);

• recupero: si ha quando i residui vengono inseriti nel ciclo produttivo diverso da quello di provenienza (es. energia ricavata dai rifiuti. Ciò non toglie che vi possa anche essere recupero di materia; si pensi ai residui di minerali di ferro provenienti dalla siderurgia, i quali possono essere recuperati dai cementifici per produrre calcestruzzo o cemento -recupero— o dalla siderurgia medesima per la produzione di ghisa — riciclaggio).

Come è evidente tra "riutilizzo" e "riciclaggio" passa una differenza piuttosto sottile; infatti, essa risiede tutta nell'intensità del trattamento subito dal materiale (più o meno pesante: lavaggio per le bottiglie di vetro; fusione per il cocciame di vetro). Però, mentre il riutilizzo si effettua solo ed esclusivamente per le cose usate; il riciclaggio, invece, è anche praticato per gli scarti di lavorazione (che sono materiali nuovi, anche se di risulta).

 

È l'analisi dei costi/benefici nella convenienza di una scelta rispetto all'altra che costituisce la cosiddetta "economia dei rifiuti".

Quanto precede rispecchia fedelmente quanto avviene nella pratica e non può subire eccezioni di sorta. Il discrimine lessicale (riutilizzo senza trattamento/riutilizzo previo trattamento diverso dal recupero codificato) operato dall'articolo 14 è un palese non senso tecnico.

 

La giurisprudenza comunitaria

Del resto l'impiego del concetto di "riutilizzo" come artificio per sottrarre un qualcosa al regime dei rifiuti contrasta grandemente con tutta la giurisprudenza comunitaria che, negli anni si è espressa sul tema e della quale, di seguito, si fornisce la seguente sintesi:

Estremi della sentenza Massima
Corte di Giustizia Ce, 28 marzo 1990, (C-359/88) Vessoso L'articolo 1 della direttiva del Consiglio n. 75/442 relativa ai rifiuti…. si riferisce, in generale, ad ogni sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi, senza distinguere a seconda dell'intenzione del detentore che si disfa della cosa. La nozione di rifiuto...non deve essere intesa nel senso che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Tale nozione non presuppone che il detentore che si disfa di una sostanza o di un oggetto abbia l'intenzione di escluderne ogni riutilizzazione economica da parte di altre persone.
Corte di Giustizia Ce, 28 marzo 1990, (C-422/98) Zanetti Una normativa nazionale la quale adotti una definizione della nozione di rifiuto escludente le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica non è compatibile con le direttive Cee…
Corte di Giustizia Ce, 25 giugno 1997, C-304/94,Tombesi La nozione di "rifiuto" vigente in Europa non consente affatto che i residui industriali avviati a riutilizzo siano svincolati dai controlli e dagli obblighi previsti per i rifiuti; tale nozione non presuppone che il detentore che si disfa di una sostanza o di un materiale abbia l'intenzione di escludere ogni riutilizzazione economica da parte di terzi. La nozione di "residuo" non può avere una rilevanza autonoma rispetto a quella di rifiuto, poichè, in caso contrario, il sistema comunitario non potrebbe trovare integrale applicazione sul territorio italiano.

La nozione di "rifiuto" figurante all'articolo1 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/Cee, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/ 156/Cee, …. non deve essere intesa nel senso che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire oggetto di un negozio giuridico, ovvero di una quotazione in listini commerciali pubblici o privati.

Corte di Giustizia Ce, 18 dicembre 1997, C-129/96 (Inter-Environment Wallonie) Parzialmente riformata, quanto al primo punto, dalla sentenza 11 settembre 2003 (C-114/01) — vedi— La direttiva sui rifiuti si applica anche allo smaltimento e al ricupero di rifiuti ad opera dell'impresa che li ha prodotti, nei luoghi di produzione. Possono costituire rifiuti, sostanze che fanno parte di un processo di produzione…. Il mero fatto che una sostanza sia inserita, direttamente o indirettamente, in un processo di produzione industriale non la esclude dalla nozione di rifiuto ai sensi dell'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/Cee relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva 91/156/Cee.
Corte di Giustizia Ce, 15 giugno 2000, proc. riuniti c-418/97 e c-419/97, Arco Il fatto che una sostanza sia il risultato di una operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B alla direttiva 91/156/Cee costituisce solo uno degli elementi che vanno presi in considerazione per stabilire se tale sostanza sia ancor aun rifiuto, ma non consente di per sé di trarne una conclusione definitiva. L'esistenza di un rifiuto deve essere accertata sulla scorta del complesso delle circostanze, alla luce della definizione di cui all'articolo1, lettera a), della direttiva 75/442/Cee, come modificata dalla direttiva 91/156/Cee, cioè dal fatto che il detentore della sostanza se ne disfi ovvero abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsene, tenendo conto della finalità della direttiva ed in modo da non pregiudicarne l'efficacia.
Corte di Giustizia Ce, 11 settembre 2003, C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy- Il detentore di detriti o di sabbia di scarto da operazioni di arricchimento di minerale provenienti dallo sfruttamento di una miniera si disfa o ha intenzione di disfarsi o l'obbligo di disfarsi di tali sostanze, che devono essere qualificate, di conseguenza, come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442/Cee, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva 917156/Cee, salvo che il detentore li utilizzi legalmente e senza trattamento per il necessario riempimento delle gallerie di tale miniera e fornisca garanzie sufficienti sull'identificazione e sull'utilizzo effettivo delle sostanze destinate a tale effetto ("autoriutilizzo", N.d.A.).

La sentenza 11 settembre 2003, (C-114/01), Aversta Polarit Chrome Oy, già citata contiene un altro principio di interpretazione fondamentale, e precisamente:

"Nei limiti in cui non costituisce un provvedimento di applicazione della direttiva 75/442/Cee, come modificata dalla direttiva 91/156/Cee, una legge nazionale deve essere considerata come un' "altra normativa", ai sensi dell'articolo 1, n. 1, lettera b), di tale direttiva, la quale contempla una categoria di rifiuti menzionata nella legge nazionale, a condizione che tale legge riguardi la gestione dei rifiuti, come definiti dalla medesima direttiva e porti ad un livello di protezione dell'ambiente almeno equivalente rispetto a quello previsto dalla direttiva. Il tutto a prescindere dalla data della sua entrata in vigore".

 

Le esclusioni dalla direttiva 75/442/Cee (come modificata dalla direttiva 91/156/Ce)

Il principio appare fondamentale per confutare quanto espresso a pagina 138 del documento elaborato dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti del I luglio 2004, dove si legge che "Per quanto, infine, attiene ai rapporti fra legislatore comunitario e nazionale … In particolare, adottando la direttiva 91/156, il legislatore comunitario ha ritenuto opportuno che, nell'attesa di normative comunitarie specifiche relative alla gestione di talune categorie particolari di rifiuti, le autorità degli Stati membri conservino la facoltà di assicurare tale gestione al di fuori dell'ambito stabilito dalla direttiva 75/442 e non ha espressamente escluso che tale facoltà possa esercitarsi sulla base di normative nazionali successive all'entrata in vigore della direttiva 91/156. Affinché una legislazione nazionale possa essere tuttavia considerata come un'altra normativa ai sensi dell'articolo 2, n. 1, lettera b), della direttiva 75/442, essa deve contenere disposizioni precise che organizzano la gestione dei rifiuti di cui trattasi, ai sensi dell'articolo 1, lettera d), della citata direttiva, al fine di evitare che si realizzi un livello di protezione dell'ambiente a seconda che taluni rifiuti siano gestiti nell'ambito della direttiva 75/442 e altri al di fuori di tale ambito, così pregiudicando gli obiettivi in materia di ambiente come definiti dall'articolo 174 Ce. Pertanto una legislazione nazionale di tal genere deve perseguire gli stessi obiettivi di questa direttiva e raggiungere un livello di tutela dell'ambiente almeno equivalente a quello che risulta dai provvedimenti di applicazione di questa". Tale assunto viene fatto dalla Commissione proprio con riferimento alla citata (e riportata in termini di dispositivo) sentenza 11 settembre 2003, Avesta Polarit Chrome Oy, ma esso è del tutto errato, poiché secondo la Commissione parlamentare, sembra che il legislatore nazionale sia facoltizzato ad operare con altre leggi su tutte le tipologie di rifiuti, mentre la direttiva 91/156/Cee prima e la sentenza in argomento dopo, escludono dal relativo campo di applicazione "qualora già contemplati da altra normativa" solo i seguenti rifiuti:

— rifiuti radioattivi;

— i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall'estrazione, dal trattamento, dall'ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave;

— le carogne ed i seguenti rifiuti agricoli: materie fecali ed altre sostanze naturali e non pericolose utilizzate nell'attività agricola;

— le acque di scarico, esclusi i rifiuti allo stato liquido;

— i materiali esplosivi in disuso

(il che è stato puntualmente recepito dall'articolo 8, Dlgs 22/1997).

 

Non solo, ma essi (e solo essi) ben possono essere disciplinati da altra legislazione nazionale, purché continuino ad essere trattati come rifiuti e né come beni né come prodotti.

 

L'assunto della Commissione parlamentare, invece, sembra voler giustificare l'articolo 14 (salvo comunque sostenerne la non fondatezza), come "altra normativa" all'emanazione della quale l'Italia è facoltizzata in ragione del principio di sussidiarità di cui all'articolo 5 Trattato Ue.

 

I punti deboli del documento della Commissione d'inchiesta

L'attività ricognitiva, dunque, svolta dalla Commissione parlamentare appare molto disancorata dalla realtà giurisprudenziale comunitaria e dai dati reali delle fattispecie del riutilizzo, del recupero e del riciclaggio (più sopra rese esplicite in termini fattuali), laddove essa non ha fissato l'attenzione sui seguenti elementi:

— per definire un "rifiuto" è fondamentale capire cosa significhi "disfarsi" (cfr. sentenze europee 15 giugno 2002 e 11 settembre 2003, tant'è che in quest'ultimo caso il giudice europeo lo ha espressamente fatto, laddove lo ravvisa sempre e in ogni caso "salvo che il detentore li utilizzi legalmente e senza trattamento per il necessario riempimento delle gallerie di tale miniera e fornisca garanzie sufficienti sull'identificazione e sull'utilizzo effettivo delle sostanze destinate a tale effetto);

— gli Stati membri non possono legiferare in via autonoma su tutti i tipi di rifiuti come se essi non fossero tali, in virtù del principio della sussidiarietà;

— il riutilizzo di un rifiuto sottoposto a transazione commerciale non esenta la "cosa" dal concetto di rifiuto (cfr. sentenze europee 28 marzo 1990 (Vessoso e Zanetti); 25 giugno 1997 (Zanetti); 18 dicembre 1997 (Inter-Environment Wallonie)

— il citato principio interpretativo sull' "autoriutilizzo" enucleato dalla citata sentenza 11 settembre 2003 (Aversta Polarit Chrome Oy) è l'unico principio che può essere legittimamente utilizzato, allo stato attuale della legislazione comunitaria in materia (giusta o sbagliata che sia), per disciplinare la problematica del "disfarsi" la quale, al riguardo, non si pone affatto il problema delle due opzioni potenziali:

1. distogliere la materia da un ciclo per farla confluire in un altro (es. ex mercuriali italiani);

2. riportare la materia dentro la catena di utilità potenziale (quindi, non è importante che qualcuno se ne disfi, ma che qualcun altro la utilizzi)

ma si limita solo a distogliere dall'alveo dei rifiuti quei materiali che possono essere riutilizzati nello stesso ciclo del produttore che li ha originati senza alcun trattamento e purché egli "fornisca garanzie sufficienti sull'identificazione e sull'utilizzo effettivo delle sostanze destinate a tale effetto".

 

Conclusioni

Pertanto, poiché le sentenze comunitarie sono immediatamente e direttamente applicabili in Italia; allorché il dictum della Corte europea sia incontrovertibile e la normativa nazionale ne risulti in contrasto, sussiste l'obbligo di non applicazione di quest'ultima (cfr. sentenze C. Cost. 113/1985, 389/1999 e 255/1999) — come peraltro fatto presente dalla Commissione parlamentare a pagina 139 della relazione in esame -, è necessario modificare l'attuale articolo 14, Dl 8 luglio 2002, n. 138, convertito con modificazioni in legge 8 agosto 2002, n. 178, recependo unicamente il già accennato principio del fatto che non ricorre il disfarsi allorquando il produttore dei rifiuti riutilizzi senza trattamento i rifiuti da sé stesso prodotti e purché egli "fornisca garanzie sufficienti sull'identificazione e sull'utilizzo effettivo delle sostanze destinate a tale effetto". Pertanto, solo in questo caso non ricorre il "disfarsi", né la relativa decisione né il relativo obbligo; quindi, non ricorre il "rifiuto". Ogni diversa statuizione (fino a mutamento della legislazione comunitaria) espone inutilmente il nostro Paese a procedure di infrazione (come peraltro già avviata nei confronti del cennato articolo 14).

 

È appena il caso di notare, che l'Avvocato Generale nelle conclusioni rassegnate dinanzi alla Corte di Giustizia europea per la domanda di pronuncia pregiudiziale del Tribunale penale Terni (C-457-02) ha suggerito alla Corte che (in www.reteambiente.it) :

"1. La direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/Cee, relativa ai rifiuti, osta alla disposizione di uno Stato membro ai sensi della quale, nell'ambito della definizione di rifiuto, il concetto "si disfi", "abbia deciso" o "abbia l'obbligo di disfarsi" esiste solo quando una sostanza, un materiale o un bene sono sottoposti ad un'operazione di smaltimento o di recupero inclusa negli allegati II A e II B della direttiva e nelle disposizioni nazionali di uguale tenore, o quando esiste una volontà od un obbligo corrispondente.

2. La direttiva 75/442 osta ad una disposizione giuridica di uno Stato membro che concretizzi la nozione di rifiuto, ai sensi della quale beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo non costituiscono rifiuto:

— se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente, oppure

— se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato II B alla direttiva e nelle disposizioni nazionali di uguale tenore.

3. Il Giudice di uno Stato membro ha l'obbligo di fare osservare la direttiva 75/442, nel senso di disapplicare una legge penale più mite emanata successivamente al reato, se e in quanto tale legge sia incompatibile con la direttiva.".

 

Quindi, poiché non c'è dubbio che una individuazione dei rifiuti/non rifiuti "caso per caso" non sia contemplata dalla direttiva 75/442/Ce, il che esporrebbe ulteriormente ad una procedura d'infrazione comunitaria, ci si chiede perché la Commissione d'inchiesta abbia varato un documento così disancorato dalla realtà legislativa e giurisprudenziale europea.

 

Da ultimo, mi auguro che l'accenno fatto a pagina 144 della Relazione dalla Commissione d'inchiesta agli Accordi di programma come strumento di semplificazione degli oneri amministrativi per la gestione dei rifiuti non voglia significare che la Commissione ascriva a tali "atti propulsivi" (che la dottrina pubblicistica tradizionale fa rientrare nelle cd. "manifestazioni di desiderio") la loro efficacia come strumento derogatorio all'apparato di controllo e sanzionatorio predisposto dal Dlgs 22/1997. Il che, infatti, sarebbe incongruo sotto il profilo del diritto nazionale, poiché tali Accordi non hanno tale autorità poiché sono semplici atti amministrativi di carattere propulsivo e non sono inseriti tra le fonti del diritto previste dalla Costituzione.

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