Cambiamenti climatici

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Venerdì sera a Copenhagen uno dei capi della delegazione francese ha paragonato il mini-accordo che ha concluso la Conferenza sul clima al patto di Monaco del 1938, che per l’inanità di Francia e Inghilterra spianò la strada al nazismo. Gli ambientalisti hanno bollato come irresponsabili ed egoisti i paesi ricchi, a cominciare dagli Stati Uniti, e i giganti emergenti, India e Cina in testa, incapaci di anteporre l’interesse dell’umanità ai loro calcoli di bottega. Le piccole isole del Pacifico, predestinate a scomparire se i cambiamenti climatici proseguiranno, hanno giudicato l’accordo irricevibile.

Hugo Chavez ha tuonato che se il clima fosse una loro banca, Stati Uniti ed Europa farebbero carte false per salvarlo. Il ministro sudanese portavoce dei paesi poveri ha detto che con la sua arroganza l’Occidente condanna l’Africa a venire incenerita dal global warming.

Al netto della drammatizzazioni retoriche e di qualche spudoratezza (il caudillo venezuelano campione degli interessi petroliferi che si erge a capopopolo ecologista, il rappresentante del regime criminale di Khartum responsabile del genocidio in Darfour che pontifica sull’Africa violentata dai potenti del mondo), la delusione di tanti per l’insuccesso della Conferenza danese è comprensibile ed è plausibile. La dichiarazione finale di Copenhagen è largamente al di sotto delle attese, degli impegni verbali più volte ribaditi da tutti i principali leader mondiali, soprattutto delle necessità. Mentre gli scienziati dell’Ipcc ammoniscono con dati e con prove che i cambiamenti climatici sono già in atto, che il tempo per agire sta scadendo, che bisogna ridurre entro pochi anni le concentrazioni dei gas a effetto serra in atmosfera se si vogliono prevenire danni sociali ed economici devastanti e irreversibili, e poche ore dopo che tutti i protagonisti della trattativa, da Obama a Sarkozy a Lula, avevano esortato ad un’azione rapida ed incisiva per fermare il riscaldamento globale, le tre cartelle generiche e senza valore legale del documento conclusivo del vertice lasciano un grande amaro in bocca: lì dentro nessun obiettivo condiviso di riduzione delle emissioni, né al 2020 né al 2050, nessuna scadenza per la firma di un vero trattato, nessuna forma di controllo internazionale sulle azioni e i risultati dei singoli paesi.

Anche per il modo nel quale è maturato, questo atto finale di Copenhagen è deludente.

Con gli Stati Uniti che hanno pensato di cavarsela mettendo sul piatto del negoziato una vagonata di dollari e cedendo alla solita, per loro, tentazione di risolvere problemi complessi e delicati con intese bilaterali con gli altri potenti della terra, in questo caso essenzialmente con la Cina che è stata la grande frenatrice di una accordo di sostanza. E con l’Onu, dall’altra parte, che a partire dalla pessima gestione della conferenza e dalla scelta inaccettabile di espellere dai lavori le Ong, ha confermato la sua crisi e con essa l’urgenza di una riforma radicale del suo statuto e delle sue modalità di lavoro.

Detto tutto questo, siamo convinti di quanto ha affermato il presidente della Commissione europea Barroso: un cattivo accordo è meglio di nessun accordo. Il “bicchiere” di Copenhagen non è completamente vuoto. Per la prima volta tutti i paesi del mondo hanno accettato il principio di impegnarsi in un quadro multilaterale per diminuire, seppure su base volontaria, le proprie emissioni dannose per il clima. E per la prima volta un presidente degli Stati Uniti ha messo nero su bianco in una sede internazionale la volontà di partecipare a questo sforzo – con una riduzione delle loro emissioni del 17 per cento entro il 2020 rispetto al 2005 – la scelta di farlo anche a prescindere dal raggiungimento di un accordo globale, la convinzione che la lotta ai cambiamenti climatici è oggi condizione irrinunciabile per lo sviluppo.

Ha ragione Barroso e ha ragione l’Europa, che esce da Copenhagen sia confermandosi battistrada nell’impegno per stabilizzare il clima sia dimostrandosi non ancora all’altezza di una vera leadership globale: tutto questo è troppo poco. Ma il mondo e la lotta contro il riscaldamento globale non finiscono in Danimarca, e il “rilancio” subito annunciato da Sarkozy e dalla Merkel per una nuova Conferenza a Bonn nel giugno prossimo (che invidia: in Europa sono loro la “destra”, mentre in Italia la maggioranza di Berlusconi vota in senato mozioni che negano l’esistenza dei cambiamenti climatici), sembra dare una risposta al «non c’è più tempo» degli scienziati e anche alla grande mobilitazione ambientalista vista in campo a Copenhagen.

Il problema climatico rischia di annichilire l’idea stessa di progresso, ed è forse la sfida più difficile con cui l’umanità si sia mai trovata a fare i conti: dipendono dall’uomo, in primo luogo dalla politica, la volontà e la capacità di fronteggiarlo, ma non i tempi della sua definitiva e irreversibile esplosione. Diranno i prossimi mesi se la rapidità dell’azione, affidata alla lungimiranza di chi decide nel mondo nonché alla comprensione dell’ormai evidente utilità anche materiale di scommettere su un’economia a basso contenuto di carbonio, sarà almeno pari alla rapidità del cambiamento ecologico dettata da madre natura.

 

(Fonte: Europaquotidiano.it)

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