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Roma, 7 gennaio 2020 - 11:40

Classificazione dei rifiuti: dopo la Corte di Giustizia la Cassazione apre una nuova fase

Rifiuti (Giurisprudenza)

(Pasquale Fimiani - Sostituto Procuratore generale presso la Corte di Cassazione)

 

 

1. Premessa

Con tre sentenze gemelle del 21 novembre 2019 (n. 47288/89/90) in altrettante fattispecie legate alla medesima vicenda cautelare si è chiuso il complesso iter processuale che aveva preso il via dalle ordinanze del 27 luglio 2017 (n. 37460/61/62) con cui la Cassazione aveva sollevato alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale sulla classificazione dei rifiuti poi definita dal giudice europeo con la sentenza del 28 marzo 2019 nelle cause riunite da C-487/17 a C-489/17.

Avendo concorso, con richieste conformi come Procuratore generale di udienza, sia alla proposizione della questione pregiudiziale, sia all'annullamento con rinvio delle decisioni del Tribunale del riesame impugnate dal pubblico ministero, ritengo opportuno limitarmi a chiarire i principi in tema di classificazione affermati dal combinato intervento di Corte di Giustizia e Cassazione e le ricadute sotto il profilo della responsabilità per falso in certificazione.

È utile ricordare che le fattispecie cui si riferiscono le tre recenti decisioni della Cassazione si inseriscono nella medesima vicenda cautelare relativa allo smaltimento di ingenti quantitativi di rifiuti provenienti dal trattamento biomeccanico di rifiuti urbani i quali, se contengono sostanze pericolose o che presentano indizi di pericolosità, sono classificati con il codice specchio di rifiuto pericoloso 19.12.11; se invece non rivelano indizi di pericolosità, sono classificati con il codice specchio di rifiuto non pericoloso 19.12.121 .

Il ciclo di smaltimento, secondo l'ipotesi dell'accusa, era stato gestito abusivamente, in quanto i rifiuti conferiti all'impianto di destinazione sarebbero stati illecitamente qualificati come non pericolosi in forza di analisi quantitative e qualitative non esaustive.

La vicenda coinvolge gli organi della società che gestiva l'impianto, quelli delle società conferenti ed i professionisti o laboratori di analisi che si ritiene abbiano eseguito analisi dei rifiuti in maniera compiacente.

Il delitto contestato è quello di attività organizzate per il traffico illecito dei rifiuti (articolo 260 Dlgs 152/2006 ed ora articolo 452-quaterdecies c.p.); inoltre, a diverse società è contestato l'illecito amministrativo previsto dall'articolo 25-undecies comma 2 lettera f) decreto legislativo 231/2001.

Il periodo di contestazione va dal 2013 al 2015.

Con tre distinti ricorsi il P.M. impugnava altrettanti provvedimenti del Tribunale del riesame: il primo consisteva nella revoca del sequestro preventivo, con facoltà d'uso, degli impianti e delle somme di denaro, nonché, ove incapienti, delle azioni o quote societarie delle aziende interessate fino a concorrenza del profitto; il secondo la revoca del commissario giudiziale nominato dal Gip ad una delle società che conferivano i rifiuti; il terzo la revoca del commissario giudiziale nominato dal Gip alla società che riceveva i rifiuti.

Alla base dei tre provvedimenti impugnati vi era la medesima affermazione di infondatezza della tesi accusatoria secondo cui la caratterizzazione del rifiuto deve essere spinta sino al 99,9% della sua composizione in quanto è consentito un valore massimo pari allo 0,1% di sostanza pericolosa nel rifiuto, in quanto il Tribunale del riesame aveva ritenuto che l'analisi del rifiuto “a specchio”, al fine di determinarne la pericolosità, dovesse riguardare solo le sostanze che, in base al processo produttivo, è possibile possano conferire al rifiuto stesso caratteristiche di pericolo.

A tal fine, aveva valorizzato le previsioni della legge 116/2014 – che in sede di conversione del Dl 24 giugno 2014 n. 91, inserì nell'articolo 13 la lettera b-bis) del comma 5, recante l'inserimento di una premessa nell'allegato D alla Parte Quarta del Dlgs 152/2006 – laddove prevede che l'individuazione di composti presenti nel rifiuto avvenga attraverso “il campionamento e l'analisi del rifiuto” da effettuare solo dopo aver analizzato “la scheda informativa del produttore” e aver preso “conoscenza del processo chimico “, ritenendo che esse smentivano la tesi secondo cui si dovrebbero analizzare tutte le componenti del campione, in quanto non avrebbe senso far riferimento alla “storia” del rifiuto attraverso la scheda del produttore ed il suo processo chimico.

Aggiungeva il Tribunale del riesame come “nella più volte citata relazione della Regione…, si dia atto non solo che l'ARPA di … a fronte di esplicita richiesta “di effettuare campionamenti al fine di analizzare e quindi dare certezza di quanto segnalato” non ha mai risposto, ma anche che altri impianti di smaltimento della Regione hanno ricevuto rifiuti a specchio con classificazione non pericolosa (normalmente 19.12.12) da società oggetto dell'odierno sequestro senza che fosse stato sollevato alcun problema ed ha evidenziato lo “squilibrio di valutazione tra i vari impianti”, che appare intollerabile”.

La conclusione era che non solo l'esclusione della sussistenza del fumus del delitto di attività organizzate per il traffico illecito dei rifiuti “atteso che, venendo meno il presupposto della presunzione di pericolosità in base alla non esaustività dell'analisi, viene a mancare ogni elemento per affermare l'abusività della gestione del ciclo di smaltimento dei rifiuti”, ma anche che “la riflessione appena esposta comporta conseguenze anche sotto il profilo della sussistenza dell'elemento intenzionale del reato presupposto”.

 

2. I principi in tema di classificazione con codici a specchio

La Cassazione ha preso atto del dictum della Corte di Giustizia e ne ha fatto applicazione nella vicenda cautelare al suo esame. Dal combinato disposto delle due decisioni possono così riassumersi i principi di riferimento in tema di classificazione dei rifiuti con codici a specchio:

A) nel caso in cui non sia immediatamente nota la composizione di un rifiuto che potrebbe rientrare tra quelli classificabili con codici speculari, è obbligo del detentore, in quanto responsabile della gestione, raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione e, in tal modo, di attribuire a tale rifiuto il codice appropriato (punti 38, 39 e 40 sentenza Corte di giustizia);

B) i giudici Europei illustrano (punti 42 e 43) i diversi metodi per raccogliere dette informazioni, richiamando, oltre a quelli indicati alla rubrica intitolata “Metodi di prova” di cui all'Allegato III della direttiva 2008/98, la possibilità di fare riferimento:

1) alle informazioni sul processo chimico o sul processo di fabbricazione che “generano rifiuti” nonché sulle relative sostanze in ingresso e intermedie, inclusi i pareri di esperti;

2) alle informazioni fornite dal produttore originario della sostanza o dell'oggetto prima che questi diventassero rifiuti, ad esempio schede di dati di sicurezza, etichette del prodotto o schede di prodotto;

3) alle banche dati sulle analisi dei rifiuti disponibili a livello di Stati membri;

4) al campionamento e all'analisi chimica dei rifiuti, evidenziando, con riferimento a tale ultimo punto, che analisi chimica e campionamento devono offrire devono offrire garanzie di efficacia e di rappresentatività (punto 44);

C) il campionamento e le analisi, dunque, costituiscono una delle possibili forme di acquisizione delle informazioni sulla composizione del rifiuto;

D) esse hanno la funzione di consentire al detentore del rifiuto di conoscerne in maniera sufficiente la composizione per verificarne l'eventuale pericolosità, in quanto nessuna disposizione comunitaria legittima un'interpretazione secondo cui l'oggetto dell'analisi si risolve nella necessità di verificare l'assenza nel rifiuto di qualsiasi sostanza pericolosa, obbligando il detentore a rovesciare una presunzione di pericolosità del rifiuto medesimo (punti 45 e 46, prima parte, Corte di Giustizia);

E) alla luce delle disposizioni comunitarie, se da un lato al detentore del rifiuto non possono essere imposti obblighi irragionevoli, sia dal punto di vista tecnico che economico, dall'altro questi, pur non essendo obbligato a verificare l'assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto, ha comunque l'obbligo di ricercare quelle che possano ragionevolmente trovarvisi, non avendo alcun margine di discrezionalità a tale riguardo (punto 46, seconda parte, Corte di Giustizia);

F) il principio di ragionevolezza trova conferma nella comunicazione della Commissione del 9 aprile 2018, contenente orientamenti tecnici sulla classificazione dei rifiuti la quale, pur non essendo formalmente applicabile per il passato, costituisce un riferimento di carattere interpretativo (punto 47);

G) ragionevolezza non vuol dire discrezionalità o scelte arbitrarie. Ed infatti, la Corte di giustizia indica (punti 49, 50, 51) le modalità di valutazione delle caratteristiche di pericolo del rifiuto cui il detentore deve provvedere, richiamando l'Allegato III della direttiva 2008/98 e la decisione 2000/532, precisando (punto 52) che, anche se il legislatore comunitario non ha ancora armonizzato i metodi di analisi e di prova, ciò nonostante entrambi rinviano al regolamento n. 440/2008 e alle note pertinenti del CEN, nonché, dall'altro, ai metodi di prova e alle linee guida riconosciuti a livello internazionale e che (punto 53) tale rinvio, secondo quanto risulta dalla rubrica intitolata “Metodi di prova” dell'allegato III della direttiva 2008/98, non esclude che possano essere presi in considerazione anche metodi di prova sviluppati a livello nazionale, a condizione che siano riconosciuti a livello internazionale. Aggiunge la Cassazione (paragrafo 9) che “l'impossibilità di imporre al detentore del rifiuto irragionevoli obblighi sia dal punto di vista tecnico che economico, non può assolutamente … essere utilizzata come pretesto per aggirare le precise indicazioni circa le modalità di qualificazione del rifiuto, essendo chiaro che se la composizione del rifiuto non è immediatamente nota (circostanza che rende, evidentemente, non necessaria l'analisi) il detentore deve raccogliere informazioni, tali da consentirgli una “sufficiente” conoscenza di tale composizione e l'attribuzione al rifiuto del codice appropriato. La raccolta delle informazioni, inoltre, va necessariamente effettuata secondo la precisa metodologia specificata, che non prevede esclusivamente il campionamento e l'analisi chimica, le quali, come espressamente indicato (punto 44), devono peraltro offrire garanzie di efficacia e rappresentatività”;

H) risultano allora entrambe errate (paragrafo 8 sentenza Cassazione) le due opposte tesi individuate nelle ordinanze di rimessione per il fatto che, in una, si riteneva la necessità del previo accertamento della pericolosità, mediante analisi appropriate, dei rifiuti con codici speculari, mentre nell'altra tale pericolosità si riteneva presunta, salvo la possibilità di escluderla mediante analisi complete dimostrative dell'assenza del pericolo (tesi successivamente definite, in più occasioni, la prima come “tesi della probabilità” e la seconda come “tesi della certezza”). Da un lato, infatti, va esclusa la “presunzione di pericolosità” nei termini in cui vi si riferisce il Pubblico Ministero ricorrente ed il conseguente obbligo per il detentore del rifiuto di dimostrarne, attraverso analisi, la non pericolosità; dall'altro, non può “condividersi, sempre alla luce di quanto evidenziato dalla Corte di giustizia, il rilievo esplicitamente attribuito dal Tribunale al mancato espletamento, da parte degli inquirenti, di attività di analisi volta a dimostrare la pericolosità del rifiuto, accollando ad essi un dovere che la pronuncia pregiudiziale esclude” (paragrafo 9 sentenza Cassazione);

I) quanto infine alla qualifica prudenziale di un rifiuto come pericoloso dai punti 48 e 57-61 della sentenza della Corte di Giustizia si evince che il principio di precauzione come declinato dalla giurisprudenza comunitaria risulti che una misura di tutela quale la classificazione di un rifiuto come pericoloso s'impone soltanto nel caso in cui, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, sussistano elementi obiettivi che dimostrano che una siffatta classificazione è necessaria. Tuttavia, il legislatore dell'Unione, nel settore specifico della gestione dei rifiuti, ha effettuato un bilanciamento tra principio di precauzione, fattibilità tecnica e la praticabilità economica, affinché i detentori di rifiuti non siano obbligati a verificare l'assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ma possano limitarsi a ricercare le sostanze che possono essere ragionevolmente presenti e valutare le sue caratteristiche di pericolo sulla base di calcoli o mediante prove in relazione a tali sostanze.

Conseguentemente, una misura di tutela come la classificazione di un rifiuto mediante attribuzione, se pericoloso, di codici a specchio, è necessaria qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di tale rifiuto si trovi nell'impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare la caratteristica di pericolo che detto rifiuto presenta, sebbene tale impossibilità pratica non possa derivare dal comportamento del detentore stesso del rifiuto.

Sulla base di tali principi, la Cassazione ha annullato i provvedimenti impugnati ritenendo errata “l'affermazione del Tribunale secondo cui “l'analisi dei rifiuti ‘a specchio', al fine di determinarne la pericolosità, deve riguardare solo le sostanze che, in base al processo produttivo, è possibile possano conferire al rifiuto stesso caratteristiche di pericolo”, in quanto riduttiva rispetto alla metodologia individuata nella pronuncia della Corte di giustizia”.

Tale affermazione è stata da taluni letta come un surrettizio recupero del c.d. criterio della certezza (per il quale sono necessarie analisi chimiche esaustive del rifiuto volte ad escludere il superamento delle concentrazioni limite di riferimento attraverso l'individuazione analitica del 99,9% delle componenti del rifiuto).

In realtà, il richiamo alla metodologia individuata dalla Corte di giustizia (punti 42 e 43) per raccogliere le informazioni sulla composizione del rifiuto sta a significare che la ricerca delle sostanze pericolose non può essere affidata a mere congetture, in quanto la classificazione del rifiuto necessariamente presuppone l'acquisizione delle informazioni secondo i parametri individuati ai predetti punti del giudice europeo (retro punto B).

Anche la verifica analitica non può essere affidata a scelte meramente discrezionali, ma deve essere fatta nel rispetto delle metodologie individuate dal giudice europeo (retro punto G).

Costituisce onere del produttore fornire la prova rigorosa del rispetto dei criteri forniti dalla Corte di Giustizia per entrambe le fasi (acquisizione delle informazioni e verifica analitica) attraverso la documentazione delle attività svolte e la motivazione specifica sulle ragioni giustificatrici delle scelte operate, le quali non possono essere quindi arbitrarie, ma devono essere ancorate a parametri oggettivi, verificabili, coerenti con la natura dei cicli produttivi e tecnicamente attendibili [in tal senso la sentenza della Corte di Giustizia induce a leggere le locuzioni “opportuni”, “proporzionati” e “pertinenti”, usate dal Regolamento (Ue) n. 1357/2014 e dalla Decisione 2014/955/Ue].

La mancanza di tale prova, pur non comportando l'automatismo nella qualificazione del rifiuto come pericoloso, poiché altrimenti sarebbe sostanzialmente operante la presunzione di pericolosità esclusa dalla Corte di Giustizia, costituisce comunque un elemento indiziario “forte” che il giudice del merito deve valutare nel contesto degli elementi forniti dall'accusa per sostenere l'assunto della natura pericolosa del rifiuto.

Appare significativo che la Cassazione non abbia esaminato la questione alla luce delle previsioni della legge n. 116/2014 che pure era vigente all'epoca dei fatti (è stato l'articolo 9, comma 1 del Dl 20 giugno 2017, n. 91, come sostituito dalla legge di conversione 3 agosto 2017, n. 123 a sostituire i numeri da 1 a 7 della parte premessa all'introduzione dell'allegato D alla parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 con il seguente periodo: “1. La classificazione dei rifiuti è effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella Decisione 2014/955/UE e nel Regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione, del 18 dicembre 2014”).

Il silenzio va letto come implicito riconoscimento della prevalenza in ogni caso dei principi di matrice europea, enunciati dalla Corte di Giustizia, rispetto alle parti della soppressa premessa all'allegato D alla Parte Quarta del Dlgs 152/2006 con essi contrastanti.

Un discorso a parte va fatto per la qualifica di un rifiuto come pericoloso per l'impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare la caratteristica di pericolo in applicazione del principio di precauzione, questione non esaminata dalla Cassazione in quanto non si poneva nella fattispecie al suo esame.

Secondo il giudice europeo:

  • l'impossibilità pratica deve dipendere da ragioni di fattibilità tecnica o praticabilità economica;
  • tali ragioni impeditive non devono essere causate dal comportamento del detentore stesso del rifiuto.

Mentre tale seconda condizione consente di escludere tutte le situazioni in cui l'impossibilità pratica sia dipesa da negligenza del detentore2 , il riferimento a ragioni di fattibilità tecnica o di praticabilità economica appare all'evidenza generico, specie per il secondo parametro, non avendo Corte di Giustizia specificato se gli impedimenti di carattere finanziario abbiano caratteristiche oggettive o soggettive (appare preferibile la prima opzione, per cui la qualifica di un rifiuto come pericoloso dovrebbe essere possibile quando il costo per l'analisi sia superiore a quello di smaltimento).

Spetta in ogni caso al detentore la prova della sussistenza delle condizioni fattuali per l'obbligatoria qualifica del rifiuto come pericoloso.

 

3. La falsità del certificato ed il relativo accertamento

L'individuazione da parte della Corte di Giustizia e della Cassazione di ben precisi parametri di riferimento, ai fini della classificazione dei rifiuti con codici a specchio, sia per l'assunzione delle informazioni, sia per la successiva verifica analitica, si riflette anche sulla configurabilità del reato di falso dei certificati di analisi.

La prima e più ricorrente ipotesi è quella della qualifica di un rifiuto come non pericoloso, invece che come pericoloso3 .

In tema di falsità dei certificati non è sempre agevole individuare il confine tra la rappresentazione non veritiera della realtà e la valutazione erronea di circostanze di fatto correttamente rappresentate.

Solo nel primo caso è configurabile la fattispecie criminosa in esame.

La giurisprudenza, infatti, esclude il delitto di falsità ideologica dell'esercente un servizio di pubblica necessità, con riferimento a quegli atti che sono espressivi di un giudizio, di valutazioni e convincimenti soggettivi, sia pure erronei, ma che non alterano i fatti4 .

Occorre però tenere presente che la natura “bifasica” (assunzione delle informazioni e successiva verifica analitica) delle attività finalizzate alla corretta classificazione, enunciata dalla giurisprudenza europea e di legittimità, comporta la necessaria compresenza nel certificato di analisi di profili rappresentativi della realtà fattuale (provenienza dei rifiuti, descrizione, modalità di  prelievo e campionamento, ovvero di consegna del campione al laboratorio, macchinari e metodiche utilizzate) e valutativi dei dati esaminati.

Per quanto riguarda la fase rappresentativa, vale il principio, affermato in tema di falso ideologico per il quale – premesso che l'acquisizione di dati (la raccolta e selezione dei dati necessari al giudizio effettuata dall'agente incaricato di svolgere una valutazione) e la loro rappresentazione, cioè il momento successivo in cui l'agente fissa i risultati acquisiti nel documento con il quale esplicita il procedimento valutativo, sono operazioni, di regola, propedeutiche all'attività valutativa in senso stretto, nella quale l'agente elabora i dati, verificandoli o accostandoli con altri attraverso strumenti anche a contenuto scientifico, al fine di esprimere un giudizio conclusivo – il reato è configurabile anche nel caso di rappresentazione difforme dal vero dell'attività di raccolta dei dati a fini valutativi5 .

Anche la fase strettamente valutativa è suscettibile di integrare una falsità penalmente rilevante quando sia disancorata dai parametri cui la stessa deve uniformarsi.

In tal caso occorre richiamare il principio secondo cui la generale esclusione dalla fattispecie criminosa di falso dell'attività di valutazione in senso stretto – in quanto inerisce alla elaborazione del giudizio e quindi non costituisce un momento certificatorio, ma è espressiva di un giudizio, cioè di valutazioni e convincimenti soggettivi che, sia pure erronei, non alterano i fatti6 – può trovare una deroga con la configurabilità del falso in enunciati valutativi, quando l'attestazione sia resa in un contesto implicante la necessaria accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, poiché nelle attività di giudizio, anche se di natura squisitamente tecnico-scientifica, in cui comunque si fa riferimento a criteri predeterminati può essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità; l'atto valutativo, infatti, comporta sì necessariamente un apprezzamento discrezionale del valutatore, ma si tratta di una discrezionalità tecnica7 .

Al fine di escludere la configurabilità del falso è, quindi, necessario che il certificato dia conto delle ragioni delle scelte effettuate, cioè metta in condizione l'organo di controllo di conoscere il processo logico seguito e gli accertamenti compiuti secondo i parametri specificati dalla giurisprudenza europea e di legittimità.

Solo in questo caso, infatti, il certificato fornisce un'esatta informazione su circostanze di fatto e, quindi, prova la verità di quanto in esso affermato (le ricerche effettuate ed i relativi risultati), per cui le conclusioni che rassegna sono espressive di un giudizio, di valutazioni e convincimenti soggettivi, che, quand'anche erronei, non alterano i fatti, con conseguente esclusione della configurabilità del reato di falso.

Nella stessa prospettiva, l'analista che riceva il rifiuto con semplice richiesta di redazione di un rapporto di prova, al fine di evitarne la qualifica di falso, deve rappresentare chiaramente la parzialità della ricerca svolta, evitando locuzioni generiche ed equivoche – quali: “in base ai parametri analitici considerati (…), il campione può essere considerato quale (…)” e “in base a quanto previsto dal decreto (…), la codifica relativa consigliata può essere la seguente (…)” o “può essere codificato come (…)” – che potrebbero far intendere, pur senza affermarlo, che egli è a conoscenza dei cicli produttivi e delle relative materie utilizzate ed ha effettuato accertamenti “in loco” con il campionamento dei rifiuti.

Tale equivocità determina l'idoneità del documento a trarre in inganno i destinatari dei rifiuti e gli organi di controllo, con conseguente configurabilità del reato di falso.

Anche quando vi siano difficoltà applicative, sotto il profilo tecnico, dei parametri legali di classificazione, il certificato (o rapporto di prova) che qualifichi il rifiuto escludendo la caratteristica di pericolosità, potrà non ritenersi falso solo se lo stesso dia conto, in modo puntuale, degli accertamenti in fatto eseguiti e delle ragioni alla base della scelta di una determinata soluzione, senza che possa essere invocata, “a posteriori”, la buona fede dell'analista e/o del produttore solo in ragione delle predette difficoltà applicative.

In tale contesto, gli spazi per invocare l'errore materiale nella redazione del certificato sono ridottissimi, in quanto limitati all'ipotesi in cui l'interessato “dimostri che i rifiuti erroneamente classificati in realtà rientrino nella categoria di cui al codice CER per il quale è autorizzato al trattamento, oppure che il codice CER dichiarato sia analogo a quello del rifiuto che è legittimato a trattare. In questi casi, riconducibili al lapsus calami ed all'errore ostativo, l'errore materiale non può produrre danni a carico del dichiarante in quanto la situazione reale, conforme alla legge, deve prevalere su quella erroneamente dichiarata”8 .

Altra ipotesi problematica è quella in cui il certificato qualifichi il rifiuto pericoloso pur non avendo lo stesso tale qualifica.

La questione va esaminata tenendo presente il principio, in tema di discariche (sancito dall'articolo 1, comma 4, del Dm 3 agosto 2005 e poi riproposto dalla stessa norma del Dm 27 settembre 2010), per il quale “tenuto conto che le discariche per rifiuti pericolosi hanno un livello di tutela ambientale superiore a quelle per rifiuti non pericolosi, e che queste ultime hanno un livello di tutela ambientale superiore a quelle per rifiuti inerti, è ammesso il conferimento di rifiuti che soddisfano i criteri per l'ammissione ad ogni categoria di discarica in discariche aventi un livello di tutela superiore”.

Il quesito è se, in tali casi, il certificato di analisi che qualifichi il rifiuto come pericoloso, pur non avendo lo stesso tale qualifica (di regola ciò avviene per ragioni di cautela del produttore o dell'analista), costituisca un falso innocuo, che sussiste “quando esso si riveli in concreto inidoneo a ledere l'interesse tutelato dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso che l'infedele attestazione o la compiuta alterazione appaiano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell'atto e del suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento delle finalità che con l'atto falso si intendevano raggiungere. In tal caso, infatti, la falsità non esplica effetti sulla funzione documentale che l'atto è chiamato a svolgere, che è quella di attestare i dati in esso indicati, con la conseguenza che l'innocuità non deve essere valutata con riferimento all'uso che dell'atto falso venga fatto”9 .

Al quesito deve rispondersi negativamente, in quanto la non offensività della condotta riguarda il solo conferimento di un rifiuto non pericoloso negli impianti per rifiuti pericolosi, mentre la qualifica di un rifiuto speculare come pericoloso non ha margini di discrezionalità e, se scorretta, compromette l'ordinato utilizzo degli impianti dedicati a tale tipo di rifiuti.

Va quindi tenuta ferma, anche in questi casi, la (necessaria) veridicità del certificato di analisi e la qualifica prudenziale come pericoloso deve ritenersi ormai consentita nella sola (residuale) ipotesi individuata dalla Corte di Giustizia di impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare la caratteristica di pericolo che presenta il rifiuto.

Per quanto riguarda l'accertamento in via indiziaria della falsità qualora il rifiuto non sia disponibile e non possono svolgersi analisi di verifica, va precisato che, a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia, la sola circostanza che, in presenza di codici a specchio, sia stata omessa la verifica analitica per tutte le sostanze pericolose in astratto riscontrabili nel rifiuto non costituisce elemento presuntivo della falsità del certificato.

Possono invece assumere valore indiziario della falsità, oltre al mancato rispetto dei parametri di riferimento individuati dalla Corte di Giustizia per la fase di acquisizione delle informazioni e di successiva valutazione dei dati acquisiti, circostanze quali l'incoerenza della qualificazione rispetto alla natura del ciclo produttivo ed alle sostanze pericolose in esso normalmente presenti, ovvero l'insufficiente rappresentazione, nella documentazione a corredo del certificato, delle attività svolte dall'analista, o la mancanza od incongrua giustificazione delle valutazioni alla base della classificazione.

Note ufficiali

1.

La questione della natura dei rifiuti derivanti dal trattamento meccanico di rifiuti urbani era stata affrontata nelle conclusioni dell'Avvocato generale CGUE ai punti 37-38:

“37. È importante precisare che le questioni del giudice del rinvio non vertono sulla classificazione dei rifiuti urbani non differenziati, che godono di una presunzione di non pericolosità in forza dell'articolo 20 della direttiva 2008/98 [NB: secondo cui gli articoli 17, 18, 19 e 35 della Direttiva, tutti relativi ai rifiuti pericolosi, non si applicano ai rifiuti non differenziati prodotti da nuclei domestici] e sono quindi esentati dall'applicazione dei principali vincoli imposti sui rifiuti pericolosi.

38. I dubbi del giudice a quo riguardano soltanto la classificazione dei rifiuti prodotti dal trattamento meccanico di rifiuti urbani, che non vanno confusi con i rifiuti urbani non differenziati conferiti nelle discariche. Tale distinzione comporta, a mio parere, due conseguenze:

  • la non applicazione ai rifiuti prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani delle norme relative alle discariche e all'ammissione dei rifiuti nelle discariche, e
  • la non applicazione ai rifiuti prodotti dal loro trattamento meccanico della presunzione di non pericolosità dei rifiuti urbani non differenziati. I rifiuti derivanti da tale trattamento meccanico possono contenere sostanze con indizi di pericolosità per il semplice fatto che sono stati inclusi per errore tra i rifiuti urbani non differenziati prodotti quali pile e cartucce di inchiostro per stampanti o qualunque altro tipo di rifiuto contenente sostanze pericolose”.
2.

Per la rilevanza solo in casi eccezionali della c.d. “crisi di liquidità”, cfr. il Nostro, Crisi di liquidità, obblighi ambientali e responsabilità penale, in "Rifiuti - Bollettino di informazione normativa" n. 270 (marzo 2019).

3.

La falsità del certificato è altresì configurabile quando, pur essendo corretta la qualifica pericolosa del rifiuto, sia attribuita una caratteristica di pericolo H (HP con il Reg. n. 1357/2014) diversa da quella effettiva, trattandosi di un fattore incidente sulle caratteristiche chimico-fisiche del rifiuto cui si riferisce l'articolo 258, comma 4, T.U.A. nel descrivere le condotte di falso.

4.

Cass. pen., sez. II, n. 3628/2006; sez. II, n. 3628/2007.

5.

Cass. pen., sez. V, n. 39360/2011.

6.

Cass. pen., sez. II, n. 3628/2006; sez. II, n. 3628/2007.

7.

Ribadita in tema di falso in bilancio da Cass. pen., sez. un., n. 22474/2016, cui si rinvia per riferimenti.

8.

TAR Lombardia (MI), sez. IV, n. 2628/2014.

9.

Cass. pen., sez. V, n. 3654/2008.

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