Da Tap a Ilva: l'Italia del "cultura del no" e i professionisti della irresponsabilità
Rifiuti
Presentiamo l'editoriale di Paola Ficco pubblicato sul numero 257 di gennaio 2018 della Rivista Rifiuti — Bollettino di informazione normativa"
Tap (Trans Adriatic Pipeline). È il nome del progetto per la realizzazione di un gasdotto che trasporterà gas naturale dal Mar Caspio in Europa (massima altitudine di 1800 metri tra i rilievi albanesi e massima profondità di 820 metri sotto il Mare Adriatico). Tap si snoda per 878 chilometri (di cui solo 8 chilometri in Italia) e collega il Tanap (Trans Anatolian Pipeline) al confine tra Grecia e Turchia, attraversa la Grecia settentrionale, l'Albania e l'Adriatico e approda in Puglia per collegarsi alla rete italiana. I lavori sono iniziati nel 2016. Ma quando il miracolo di ingegno, tecnologia e rispetto per l'ambiente arriva in Italia ecco manifestarsi il vero spettro: l'arroccamento cieco e irrazionale nella "cultura del no".
In Puglia, le autorizzazioni statali sono state impugnate dalla Regione e dal Comune di Melendugno. Sia il Tar che il Consiglio di Stato hanno respinto i ricorsi. Poi è scattata la protesta “no Tap”, con i Sindaci in testa, per opporsi allo spostamento (temporaneo e autorizzato) degli ulivi. Ne è seguito un espianto a tappe in un surreale clima da guerriglia tra picchetti di polizia e di manifestanti. Stesse scene per proteggere (anche) dal morbo della xylella i circa 200 ulivi con apposite coperture. Reazioni scomposte contro un tubo di un metro e mezzo, interrato a ottocento metri dalla costa a una profondità di sedici metri. Un pericoloso nemico.
Che dire dell'Ilva, cioè della più grande acciaieria d'Europa? I tubi sono più grandi e i problemi anche; tuttavia l'Ilva vale 7 punti di Pil pugliese, 1 punto di Pil nazionale e 10.000 posti di lavoro. La si vorrebbe alimentata a gas, ma il gas in Italia non deve arrivare.
Tutto accade nella nostra bella Puglia dove si sono dati appuntamento gli esponenti di questo nuovo Medioevo italiano chiamato "decrescita felice" e che della deindustrializzazione fa il suo motore e il suo obiettivo, e che riproduce la propria insana genìa dando i natali a giustizialismo e assistenzialismo. Il nuovo modello di vera libertà e uguaglianza. È invece il professionismo della irresponsabilità che, come una prosa antinarrativa impedisce al romanzo di esistere, si oppone alla crescita sostenibile.
Insomma, una decadenza progressiva mascherata da momento identitario e presa di coscienza dei territori.
Nel nostro mondo fluttuante che, senza ragione, continua a rinunciare alle proprie radici, inventiamo i girotondi e nell'ebbrezza dei buoni sentimenti, balbettiamo supposte verità parascientifiche.
La feroce battaglia occidentale contro la polarità che da sempre regge il mondo (maschio‑femmina; giorno‑notte; bene‑male; vita‑morte) vuole abolire ogni differenza perché così saremo tutti infinitamente liberi. Il ruggito terminale del nichilismo.
Creare il tessuto produttivo di un paese è come creare una lingua.
Distruggere l'una è distruggere l'altro. Salvo poi rimpiangere tutto e passare attraverso la disperante rivalutazione esotica, per ricostruirne il cammino.
In Italia è già successo con la scomparsa della civiltà contadina. Ora si demonizza la modernità forse perché, tra le tante, si è persa anche l'euforia del nuovo. Del resto, tutto corre troppo veloce e non c'è spazio per rallegrarsi di quanto arriva né per rammaricarsi di quanto passa perché il tempo si srotola in un unico istante, sempre uguale.
Un'alchimia drammatica e polifonica dove tutto è un po' come il "gratta e vinci", dove la serie tv o il cartone diventano testi sapienti.
Fra tutte le cose che l'Italia avrebbe potuto scegliere di essere ha scelto la peggiore: diventare una vertigine di fatica. Con la sconcertante forza di una liturgia che alimenta il vero con il falso e il falso con il vero.
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