News - Editoriali

Roma, 1 settembre 2015

In un paese a “opzione zero”, anche la paura di scegliere strategicamente tra rifiuto e risorsa spinge la fuga dei cervelli

Rifiuti

(Paola Ficco)

Presentiamo l'editoriale di Paola Ficco pubblicato sul numero 231 di agosto-settembre 2015 della Rivista Rifiuti — Bollettino di informazione normativa

 

Il fenomeno delle persone di talento o ad alta specializzazione professionale che fuggono dall’Italia (i cd. cervelli in fuga) presenta ormai dati allarmanti. Non si può continuare a rinviare una riflessione serissima sul progetto di futuro che il nostro strano paese si è dato, perché al più che visibile rallentamento del progresso culturale, tecnologico ed economico seguirà una inevitabile paralisi della classe dirigente e quindi del paese intero.

Si legge in questi giorni che alcune Università italiane programmano numerosi insegnamenti in inglese al fine di attirare studenti stranieri, per recuperare un po’ di competitività su quelle anglofone. E questo è giusto perché la ricerca non conosce e non deve conoscere frontiere.

Tuttavia, nessuno fa praticamente nulla per tenere in Italia i nostri ricercatori o fare in modo che quelli “fuggiti” ritornino. Ed è qui che nasce il problema, quando il saldo tra gli studiosi che vanno via e quelli che fanno ritorno o che qui si trasferiscono è negativo. Insomma, una emorragia di futuro.

Uno dei grandi sistemi di attrazione sarebbe, sicuramente, il dialogo potente tra mondo accademico e imprese. E qui il pensiero corre a un’altra fuga, quella dei capitali. In buona parte dovuta al tentativo di cercare altrove ambienti più favorevoli all’impresa dove la dimensione imprenditoriale sia resa meno penosa da cavillose e decerebrate cisti burocratiche. Quelle che fanno diventare quantomeno afflittivo non solo fare impresa ma semplicemente essere cittadino (non pensiamo subito all’Aia, rimaniamo nel più casalingo caso del cambio del fornitore di energia elettrica).

È necessario che tutti cominciamo a chiederci in che misura l’atteggiamento attuale possa trovare spiegazione. Alle future generazioni non dobbiamo lasciare solo matrici ambientali pulite (e non si riuscirà a fare neanche quello) ma anche un sistema paese che funzioni. Quando si parla di ambiente si pensa solo alla tutela delle acque, del suolo, dell’aria, della biodiversità ecc. Si dimentica, invece, il triangolo della sostenibilità dove sistemi economici e sociali e ambientali sono integrati.

Si parla allora di “opzione zero”, tanto irrealistica per quanto riguarda l’ambiente, tanto reale per quanto riguarda lo sviluppo dell’Italia.

È questa un’espressione rubata all’ex Presidente statunitense, Ronald Reagan (ipotesi negoziale per il ritiro delle armi dall’Europa da parte di Usa e Urss) e che è diventata il virus che ha contaminato questo paese che desidera cambiare e che, invece, non cambia mai (se non in peggio). Ostaggio com’è di veti incrociati, di burocrazia, di norme vecchie e polverose come i burocrati che pretendono di interpretarle. Così tutti hanno scelto di non rischiare, di non assumersi responsabilità, di abbattere i costi di adesso e non pensare a quelli di domani. Insomma abbiamo perso la creatività, relegandola tutta alla fantasia degli chef.

Questo limbo si manifesta anche nella gestione dei rifiuti, dove il Sistri è la punta di un iceberg immenso; dove i procedimenti amministrativi relativi ai rifiuti diventano il terreno di esercizio dei personalismi e dei revanscismi intellettuali (e non) dei singoli. Dove, nonostante la non rinviabile necessità di abbracciare l’economia circolare, la definizione di rifiuto (fatte salve le vendite di beneficienza), in assenza di un ruolo forte e consapevole della pubblica amministrazione locale, strozzerà chiunque proverà a dare una visione prospettica delle risorse.

Il cambiamento resta così inesorabilmente imbrigliato nell’eterno limbo decisionale dove si sceglie di non scegliere. Ed è su questo essere così imbrigliati, così confusi e pasticciati che il desiderio di essere altrove diventa per molti inarginabile.

Le declinazioni del desiderio sono tante ma solo quello che ci assomiglia ci rende felici. Forse è per questo che i martellanti messaggi pubblicitari dei gestori di telefonia mobile hanno sempre protagonisti giovani e belli. Dal processo di identificazione che ne deriva, tutti sappiamo di poter contare sul possesso garantito della chiacchiera frenetica che crepita nei cellulari e sul rapporto con gli altri mediato dalle protesi dei touch screen. Dissociarsi da questo circolo vizioso non è facile ma molti (per fortuna loro) lo fanno e (per sfortuna nostra) si prefigurano in un altrove che diventa il nuovo oggetto del desiderio perché fluisce, perché da possibilità, perché annusa il futuro. Perché, in una parola, somiglia a chi (per fortuna sua) ha consapevolmente dai 20 ai 30 anni.

La distanza tra il sogno e il futuro non spaventa, perché quello che rende prezioso qualcosa è il tempo che ci ha messo per diventare nostro.

 

 

 

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