News - Editoriali

Roma, 5 dicembre 2013

La cultura che non c'è più e la tragica corsa verso il nulla

Rifiuti

(Paola Ficco)

Presentiamo l'editoriale a firma di Paola Ficco pubblicato sul numero di dicembre della Rivista Rifiuti – Bollettino di informazione normativa.

 

 

"La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione". È l’articolo 9 della Costituzione. Della nostra Costituzione, quella che in molti diciamo essere la più bella del mondo e quella che in moltissimi… non conosciamo! Del resto in un Paese che preferisce le slot machine alla cultura non si può pretendere che la conoscenza della Costituzione sia così diffusa e che, addirittura, solo si sospetti l’esistenza del suo articolo 9. L’Italia possiede il patrimonio artistico e culturale più grande del mondo, frutto di creatività artistiche e scientifiche uniche; nonostante le pecche dell'istruzione nazionale, i nostri “cervelli” riescono ancora ad affermarsi nei dipartimenti universitari stranieri, sempre attenti al merito e non (solo) alle vischiosità dei rapporti. Nonostante questo, da diversi decenni, attraversiamo una crisi che, ormai, sembra non avere fine. È una crisi strutturale che tocca i sistemi economici perché la fragilità è, innanzitutto, morale e civile.

Dal piccolo gesto di volgarità quotidiana della macchina in doppia fila allo scempio (a tutti i livelli) dei roghi campani per vent'anni. Sul piano pubblico e su quello privato la supina accettazione delle oscene parole di Giulio Tremonti (all’epoca ministro dell’economia) “la cultura non dà da mangiare” è il tristissimo esempio di come si consenta al primo che passa (anche se ministro) di farsi beffe del capitale cognitivo italiano, cioè di quell’insieme di competenze umanistiche, scientifiche e tecniche di cui un Paese dispone.

Invece, la cultura è una risorsa. Sempre, ma soprattutto in tempi di crisi. Non è né una civetteria né un lusso È una risorsa tutta nostra, italiana, perché ambiente, arte e architettura sono tutte italiane. Nessuno può toglierci tutto questo, tranne noi. Infatti, ce ne stiamo privando, perché siamo sempre più riluttanti a capire che nella cultura bisogna investire, riscoprendone l’enorme valore, anche economico. In occasione della manifestazione Florens 2010, la European House – Ambrosetti presentò uno studio che calcolava gli effetti dell’investimento culturale (anche) sull’occupazione. Risultato: per ogni incremento di una unità di lavoro nel settore culturale, l’incremento totale sulle unità di lavoro del sistema economico è di 1,65. Di cui 1,10 trattenute all’interno del settore culturale, 0,13 generati nell’industria manifatturiera, 0,07 nei trasporti e nel commercio, 0,04 nell’agricoltura, 0,03 nelle costruzioni e 0,02 nell’industria non manifatturiera e nel settore degli alberghi e della ristorazione.

Sono passati tre anni, ma l’Italia continua a non rendersi conto di questi dati e a non capire che i Paesi che investono molto in cultura crescono economicamente e hanno un potente senso civico. Quasi come se le due cose fossero connesse (ma pensa un po’!). Creatività e innovazione migliorano la vita civile e istituzionale di un Paese assai meglio di ogni feroce legge di stabilità.

E mentre siamo qui a crogiolarci sulle vestigia di un patrimonio inestimabile, consentiamo il traffico di opere d’arte, il depauperamento dei musei e il crollo di Pompei, mentre la Global city of art con richiami immensi al rinascimento italiano è ormai da anni niente meno che Singapore, la repubblica che, guarda caso, cresce a due cifre ormai da dieci anni e che già dal 1989 effettua cospicui investimenti culturali a supporto della creatività, dell’innovazione e della qualità della vita, dove i musei di arte, storia, e scienza sono inaspettatamente e semplicemente spettacolari. In Italia, invece, vince il voyeurismo infanticida degli adulti che, accettando e amplificando le acerbe vanità dei bambini, li trasforma in tristi maschere di un avanspettacolo esibizionista. Il futuro.

Ben vengano allora gli Stati generali della cultura promossi in questi giorni da Il Sole 24 Ore per la ricerca di un nuovo illuminismo dove efficienza istituzionale, benessere sociale e libertà economica sono rimessi alla capacità di investire con lungimiranza nel capitale cognitivo.

Sì, se ne parla, certo, ma non tanto come meriterebbero: tutto rimane sempre tra un pubblico di iniziati, invece il messaggio andrebbe veicolato per le strade, nelle scuole, tra la gente. Con gioia e non come un’accusa di cose complicate. Ma occorre fare presto, perché prima che una nuova bellezza torni a dare ordine alle cose, a tutte le cose, possono passare anche molte generazioni. E nel frattempo si fa tardi. Troppo tardi. Per tutti.

 

 

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