News - Editoriali

Roma, 4 gennaio 2010

Privatizzare gli utili e socializzare le perdite: il “fil rouge” del libero mercato nelle politiche ambientali

Rifiuti

(Paola Ficco)

Entro il 12 dicembre 2013 gli Stati membri Ue dovranno predisporre “programmi di prevenzione” per “dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali connessi alla produzione dei rifiuti”. L’allegato IV della direttiva 2008/98/Ce indica misure concrete per la prevenzione.

 

Insomma, ogni seria politica di prevenzione della produzione dei rifiuti non può prescindere da una complessiva rivisitazione delle politiche economiche e dei modelli di sviluppo, intervenendo sui flussi di materia. Il più importante esempio nazionale in materia è dato dal Conai che ha fatto proprio il concetto coinvolgendo oltre 200 aziende e messo in campo oltre 500 azioni concrete. Questo nonostante gli obiettivi della direttiva imballaggi siano – in parte – diversi da quelli della direttiva rifiuti: la prima mira ad armonizzazione il mercato interno; la seconda, alla protezione ambientale. Tuttavia, il “sistema imballaggi” nazionale rappresenta un consistente punto di riferimento, anche perché i programmi di prevenzione sono oggetto specifico della direttiva imballaggi. Forse, se non vi fosse stato un espresso obbligo anche gli imballaggi oggi partirebbero da molto più in basso. Il mercato, infatti, non è lo strumento giusto per tutelare l’ambiente. So di essere in “controtendenza”; penso alla privatizzazione dell’acqua e anche alla responsabilità del produttore, concetto espresso dalla direttiva rifiuti (anticipato dalle direttive fine vita auto, raee, pile e batterie). Il pensiero corrente è: poiché il produttore dei beni è responsabile dei rifiuti che da questi derivano, costui ha la sola responsabilità economica della raccolta e dell’avvio a smaltimento/recupero. Di qui, pluralità di sistemi di raccolta e recupero, cabine di regia, tavoli tecnici e “business”; insomma, la fantasia al potere. Tutto fondato sul valore economico e sulla proprietà (categorie sconosciute alla tutela ambientale, ma che il lessico giuridico usa per atavici motivi di riferibilità alle categorie classiche della pandettistica) di quanto si raccoglie. La responsabilità del produttore, invece, è altro: chi immette sul mercato un prodotto (quindi un potenziale rifiuto) deve assumersi la responsabilità dei possibili danni che quel bene può cagionare all’ambiente, fin dalla fase della produzione (impiego delle sostanze, maggiore durata della vita media ecc.).

 

Questo perché l’ambiente non comincia dove si produce un rifiuto, ma molto prima. Tuttavia, questa chiave di lettura non attecchisce, mentre si scomoda (più o meno correttamente) il “libero mercato” per non pregiudicare la concorrenza in relazione a chi raccoglierà, sempre guardando il valore di mercato del bene. Ma, se quel valore diminuirà o se quel rifiuto non sarà facilmente raggiungibile (es. in fondo al mare), chi pagherà la raccolta? La collettività indifferenziata, ovvio. Privatizzare gli utili e socializzare le perdite. Ma questo lo avevo già detto.

 

 

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